lunedì 27 gennaio 2020

Jojo Rabbit: l'ironia che può insegnare a combattere la paura

Jojo Rabbit non è solo un film da vedere tanto per, è il Film che abbiamo bisogno di vedere in questo periodo storico, e dobbiamo correre al cinema tutti, nessuno escluso, perché possiamo sempre imparare qualcosa.

Oggi, in occasione del Giorno della Memoria, vi propongo un breve commento. Dopotutto ci sono stati tanti Jojo e ce ne potranno essere ancora molti perché, come ci insegna Vico e la storia stessa, viviamo una serie di corsi e ricorsi storici e il passato non è tanto lontano quanto crediamo. Ecco perché è necessario che si ricordi e si tramandi quello che siamo stati per migliorare quello che siamo e dare speranza a quello che saremo.

Jojo Rabbit nella sua semplicità cerca di coinvolgere il suo pubblico in un viaggio, un percorso fatto di errori e falsi miti che possono indurci a sbagliare, ma allo stesso tempo ci propone il più potente mezzo a nostra disposizione per abbattere questi ostacoli ovvero . È attraverso l’incontro e la conoscenza reciproca che impariamo a smascherare le differenze e proviamo a costruire qualcosa insieme.
Ma quanto siamo influenzati dalle idee degli altri? Quanto siamo disposti a perdere pur di perseguirle in tutto e per tutto? E come possiamo accorgerci di vivere in una grande illusione?

Sono tutte domande che nascono spontanee. Il peso della propaganda, allora come oggi, è un ombra incombente che modifica e oscura l’intera realtà, e se già è difficile combatterla da adulti, figuriamoci quando non si è nemmeno ragazzi.
Jojo ha dieci anni e mezzo e vive nella Germania nazista durante la Seconda Guerra Mondiale che fa da scenografia alla sua vita con il rumore di esplosioni e di colpi di fucile. È un bambino perfetto: ariano, biondo, occhi azzurri, vivace e tremendamente invasato nel venerare la sua religione preferita, il nazionalsocialismo.
Ha un migliore amico, Yorki, con cui condivide le esperienze della gioventù hitleriana con fervido entusiasmo e nessuna esitazione correndo per i boschi al grido di “bruciamo un po’ di libri”. 
Jojo ha una motivazione in più rispetto ai suoi compagni che lo spinge a essere così fedele al Reich. Il suo migliore amico immaginario è niente di meno che Hitler in persona che lo consiglia, lo canzona, lo motiva offrendosi come spalla quando lo vede giù di morale. Il perfetto supereroe che ogni bambino desidererebbe. Ma la sua vita all’improvviso cambia per sempre e lui, Jojo l’impavido, diventa Jojo coniglio, trovandosi a percorrere una strada sconosciuta, un viaggio verso la verità e la ricerca di se stessi.

La propaganda dopotutto non è altro che un velo di Maya che deve essere scoperto per permetterci di vedere oltre la realtà che ci hanno costruito e in cui ci hanno imposto di vivere. Possiamo riuscire a togliercelo da soli o possiamo avere bisogno di un aiuto esterno. Per Jojo è fondamentale Elsa, la giovane ebrea che vive nascosta nella parete di casa loro. Elsa è severa, attenta, gioca la sua vita misurando i silenzi e le parole, sogna la libertà che le è stata portata via e cerca di insegnare a Jojo a guardarsi dentro, oltrepassando e distruggendo la sua corazza di nazista e le false dicerie che gli sono state tramandate per introdurlo alla vita reale, quella in cui ariani ed ebrei non sono appartenenti a gruppi diametralmente opposti, ma possono essere amici, o perlomeno persone da rispettare.

Nessun uomo è meglio di un altro, nessuna persona può decidere della vita di un’altra, un concetto tanto forte quanto distorto nella nostra società dove ha assunto un significato più orwelliano, in altre parole, parafrasando la “Fattoria degli animali”, “Tutti gli uomini sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri”.
In un tempo in cui si giustifica tutto, dove la memoria del passato non sembra avere alcun valore se non per due giorni l’anno, e dove le persone si inaridiscono e inibiscono lasciando commenti su un social pensando di potersi fare giustizia da soli, Jojo Rabbit colpisce il centro, alleggerendo gli occhi e facendoci riflettere sul nostro potere di essere uomini dotati di intelletto, e lo fa servendosi dell’ironia, la chiave che può diventare la migliore arma per sconfiggere la paura.
Esilarante, comico, sarcastico, a tratti drammatico e con una punta di commozione sul finale, è un film che può risvegliarci dal torpore della zona grigia, soprattutto noi italiani, e restituirci la capacità di emozionarci.

Jojo Rabbit è il nuovo film di Taika Waititi, in corsa agli Oscar 2020 con numerose nomination tra cui spiccano Miglior film e Migliore attrice non protagonista per una splendida Scarlett Johansson nei panni della madre di Jojo. Waititi non è solo il regista, interpreta anche Adolf Hitler caricaturando il personaggio con aspetti che ricordano il Grande Dittatore di Chaplin. Spicca la vena umoristica nei movimenti e nel parlare del Fuhrer che lo rendono più simile ad una marionetta figlia dell’immaginazione di un bambino rispetto a un personaggio reale. Noterete infatti che non viene mai mostrato il dittatore come capo del Reich e che le uniche apparizioni di Hitler sono le proiezioni mentali di Jojo, come se appunto non fosse che un costrutto fantastico.
Attraverso questa scelta viene sminuito anche il peso dell’ideologia nazi-fascista: le loro idee appaiono ridicole, quasi no-sense, portando la platea a sorridere in molte scene (una su tutte è l’esempio di estremizzazione del culto della personalità che spinge i cittadini a salutarsi con quindici “Heil Hitler” di seguito).
Pesantemente criticata è anche l’idea di appartenenza al nazismo: le persone non sanno cosa stanno combattendo, non credono nemmeno a quello che gli viene detto, lo appoggiano per sentirsi parte di qualcosa. 

Infine, tutta la pellicola oscilla tra bene e male, reale e immaginario senza mai tracciare un confine netto, lasciando al corso della storia lo spazio necessario per crescere, svilupparsi e raggiungere una consapevolezza diversa sfidando l’ostacolo più grande che è combattere se stessi e le proprie convinzioni. Jojo impara a conoscere il nemico, lo studia, lo prende in giro per creare un muro di distanza, senza accorgersi di star livellando il terreno rendendolo sempre meno differente, aggiungendo tanti piccoli tasselli al puzzle della sua vita che renderanno quasi impossibile non innamorarsene.
  
“Lascia che ti accada tutto
Bellezza e terrore
Vai avanti così
Nessuna sensazione è definitiva "


                                                       Rainer Maria Rilke




sabato 18 gennaio 2020

Sex Education 2: Non solo sesso e non solo ragazzi

Si comincia sempre con un gran rumore che poi, piano piano, scema verso il silenzio della normalità. 
È così che ritorna su Netflix, ad alleviare le mie giornate da studente in crisi, Sex Education (creata da Laurie Nunn), con otto nuovi scintillanti episodi che rinnovano la mia idea che questa sia una serie che andrebbe vista dal maggior numero possibile di persone. 
Un po’ di Skam e un po’ di Skins alla base di quella che si è rivelata una serie che non solo parla di ragazzi, ma che arriva proprio a creare una connessione con loro senza dipingerli come esagerati o lontani dall’idea reale di quello che sono. È per questo che ognuno si può un po’ ritrovare in una sfumatura di carattere, in un comportamento o in un intero personaggio.

Non solo sesso e non solo ragazzi, in questa seconda tappa, la vera novità è il mondo dei “grandi”, gli adulti che volenti o nolenti si ritrovano ad affrontare una vita non troppo distante dai loro pargoli adolescenti e che hanno bisogno, alle volte, che siano questi ultimi a salvarli dalle paure che li affliggono.
Perché sì, anche i “grandi” possono essere spaventati. E si, il sesso può essere un problema anche per loro.

Nell’atmosfera caotica di una scuola superiore britannica, tra persone che credono di essere state contagiate dalla clamidia attraverso uno starnuto, e professori che non sanno nemmeno bene di cosa parlano quando tengono il corso di educazione sessuale, il povero e cervellotico Otis (Asa Butterfield) si ritrova a fronteggiare i suoi bisogni fisiologici, scoprendo le potenzialità del suo corpo, simpaticamente preso in giro dal suo migliore amico Eric (Ncuti Gatwa) anch’egli assillato da problemi di cuore legati al nuovo arrivato, l’affascinante francese Rahim. 
Allo stesso tempo, Otis, cerca di tenere in piedi la sua relazione con l’effervescente Ola (Patricia Allison) minata dalla figura onnipresente di sua madre Jean (Gillian Anderson) che frequenta il padre della sua ragazza, portando entrambe le coppie a situazioni ai limiti dell’assurdo.
La Clinica del Sesso, che nella prima stagione era stata l’ancora di salvezza di gran parte del corpo studentesco, messa sù da Otis e Maeve (Emma Mackey), è in crisi, dal momento che Jean si è offerta gratuitamente come tutor per accogliere le domande e i problemi dei ragazzi contro il volere dell’austero e conservatore preside Groff (Alistar Petrie) che vorrebbe tenere il sesso lontano dal suo istituto.

La minaccia all’integrità e al rigore sembra essere la chiave esistenziale della lotta del signor Groff ben oltre la sua figura professionale di preside. Nell’ultimo episodio della scorsa serie, infatti, lo avevamo visto spedire alla scuola militare suo figlio Adam (Connor Swindells) considerato esclusivamente come un porta guai e un fallimento che era meglio raddrizzare. In questa nuova avventura lo vediamo preoccupato e instabile, come se accettare i problemi cui deve far fronte, non solo lo infastidisse ma generasse in lui un conflitto interiore tra il suo essere uomo, padre, marito e preside.

In questa stagione è di grande rilievo, secondo me, l’aspetto relazionale tra genitori e figli che spesso si trova alla base di conflitti silenziosi e opprimenti che si preferisce ignorare piuttosto che fronteggiare, sia da un lato che dall’altro, impedendo a tutti di vivere completamente la propria vita. Gli adolescenti possono essere complicati e spesso hanno bisogno di guide che lubrifichino i binari del loro treno senza imporre però una strada precisa da seguire. I genitori, soprattutto quando si rendono conto di star perdendo un po’ le redini del gioco, soffrono questo allontanamento e tendono a cercare di recuperarlo in ogni modo andando ad oscurarne un po’ le cause. 

Ansia sociale e da prestazione però non si trovano solo tra le lenzuola di un sedicenne che vuole perdere la verginità perché lo deve fare.

La paura di crescere e di essere quello che si è, si insinua nelle scelte che prendiamo, nei pensieri che si dipingono quando si guarda al futuro e nelle amicizie che ci accompagnano lungo il cammino. 
Diventa quindi fondamentale capire chi siamo, cosa ci piace, cosa temiamo e cosa vogliamo essere. E questo è un percorso che si può fare a sedici, a venti, a quaranta o cinquant’anni perché  si può rinascere anche quando non lo crediamo possibile, basta solo trovare il giusto modo.
Ho trovato che Sex Education 2 si sia quasi superato andando ad approfondire e unire i tasselli che aveva lasciato in sospeso l’anno scorso, portando in scena un prodotto giovane, diretto, ma più consapevole del valore educativo che lo accompagna e di conseguenza più maturo nei temi trattati.
Il fulcro rimane l’imperfezione. Nell’aspetto fisico, nel carattere, nelle relazioni, nel sesso, nelle famiglie e nelle carriere scolastiche, i nostri personaggi non sono degli eroi irraggiungibili, sono persone alla portata di tutti che dubitano delle proprie potenzialità e si illudono di far bene anche quando non è realmente così.
Insomma, a quanti di noi è capitato, per stupire o fare bella impressione, di cercare consigli su internet che si sono rivelati fallimentari? E quanti hanno cercato le risposte ai loro dubbi sempre online?
Questo probabilmente perché chiedere a un computer di aiutarci è più facile oltre che veloce. Non ci vergogniamo, nel buio della nostra camera, a chiedere ad una macchina perché ci piace una ragazza, perché non riusciamo ad avere un orgasmo, perché non ci va di fare sesso anche se tutti ci dicono che dovrebbe andarci.
È difficile parlarne anche con i propri amici più fidati. Sex Education porta in scena questi problemi dandoci una grande chiave di lettura: l’ascolto.

Imparare ad ascoltare noi stessi e gli altri può farci superare qualche barriera. La vergogna si può sconfiggere con la fiducia del dialogo, così come la disinformazione.
Si può essere un ragazzo ed essere bisessuale senza che questo ci faccia sentire meno uomini di altri.
Si può essere pansessuali e confusi. 
Si può essere asessuali e non avere desiderio di avere relazioni intime con qualcuno, ma nonostante questo avere voglia di innamorarsi lo stesso.
Si può essere degli impacciati cronici e rovinare tutto per poi rendersene conto.
Si può essere disabili e ambire ad una ragazza che ci sembra “troppo" per noi.
Si può soffrire di vaginismo e avere paura anche solo ad immaginarci a letto con qualcuno, ma non per questo ci è vietato trovare una soluzione che ci aiuti a superare questa condizione.
Si può aver subito una molestia, che è assai più diffusa della violenza, e può servirci del tempo per ritrovare il coraggio di tornare alla normalità.
Si può voler smettere di seguire il sogno di qualcun altro anche se questo può far soffrire chi ci sperava.

E possiamo trovare un amico in chi non avremmo nemmeno degnato di uno sguardo solo perché si è mostrato per quello che davvero è.

Nel suo essere semplice, Sex Education, racconta la complessità di un mondo che scorre, va avanti, si inceppa e riprende il suo cammino e lo fa con delicatezza e schiettezza allo stesso momento. 
Questo perché le persone hanno bisogno di poter parlare ed essere ascoltate e spesso trovare le risposte a domande che non si erano nemmeno mai posti.


When You're young and in love - The Flying Pickets