venerdì 20 settembre 2019

Unbelievable. Incredibile


Incredibile.
Perché non ci sono segni di effrazione o scasso, non ci sono tracce di fluidi corporei, il coltello appartiene alla vittima che non riesce a far combaciare le molteplici versioni che è costretta a dare alla polizia. Incredibile, perché essendo una “giovane a rischio”, con un passato difficile alle spalle, che ha cambiato numerose famiglie affidatarie, ci si aspetta di tutto per attirare un po’ l’attenzione, e il dubbio morde silenzioso l’orecchio di chi la conosce. Incredibile, perché è complicato aprire un’indagine senza avere prove effettive, senza che nessuno abbia visto nulla, è più semplice chiudere il caso il prima possibile. Incredibile, perché uno stupro è sempre difficile da accettare e ci sembra una realtà così lontana da noi che non la percepiamo come possibile finché non la proviamo o non conosciamo persone che ci sono andate vicine.




Incredibile, unbelievable, è il titolo della miniserie Netflix scritta, diretta e prodotta da Sussanah Grant, basata su fatti realmente accaduti. L’avevo addocchiata qualche giorno fa, salvo poi ritrovarmela consigliata in un gruppo Facebook di cui faccio parte, l’ho iniziata e finita nell’arco di una giornata e credo me la riguarderò al più presto per evidenziarne i più piccoli dettagli.

Non c’è un personaggio principale, ci sono tante figure che compaiono e scompaiono, le cui vite si intrecciano inevitabilmente in una fitta rete che attraversa l’intero Colorado e si estende ad altri stati americani. 
È stata definita da alcuni una serie tv femminista, io toglierei questo aggettivo che sta diventando sempre di più un’etichetta, lascerei solo serie tv e consiglierei la visione a un pubblico più ampio possibile, perché la realtà dei giorni nostri pullula di situazioni simili, e di donne che non denunciano o non sono credute sentiamo spesso le storie. 




Marie Adler (Kaitlyn Dever) ha diciotto anni, vive in una comunità per ragazzi che escono dal giro degli affidi e una notte viene stuprata da un misterioso uomo mascherato entrato dalla porta finestra della sua camera che l’ha legata e minacciata scattando poi alcune
foto. Rimane sconvolta ma non reagisce come gli altri si aspetterebbero, cerca di comportarsi come se nulla fosse successo,
va al lavoro come sempre, ma qualcosa in
lei si è rotto, anche se non in maniera evidente lo si può leggere nei suoi sguardi impauriti, nell’ansia di ogni piccolo rumore, nel non voler parlare di quella notte nonostante la si continui a sognare in loop. Tuttavia due delle ex madri affidatarie, quelle a cui Marie è più legata, cominciano ad avere il sospetto che la ragazza possa essersi inventata tutto e favoriscono il detective che decide di chiudere la vicenda senza troppi indugi. 
Marie viene archiviata con un’accusa di falsa testimonianza a suo carico, una multa di 500$ da pagare, la libertà vigilata da rispettare e il peso di sapere di aver detto la verità ma di essersi auto-convinta di aver mentito. La storia di Marie è incredibile e lei non viene creduta nemmeno da coloro che le sono più vicini, anzi, viene additata come bugiarda e dovrà subire le conseguenze di questa condizione.

A distanza di anni, in Colorado, in due contee distinte, le detective Karen Duvall (Merrit Wever) e Grace Rasmussen (Toni Collette) vengono incaricate di due casi di aggressione sessuale molto simili tra loro, anzi pressoché identici. Non fosse che una vittima è giovane e bianca e l’altra anziana e nera si direbbe che potrebbe essere la medesima scena. Per puro caso riescono ad entrare in contatto l’una con l’altra e, mettendo insieme una squadra di collaboratori, decidono di lavorare al fine di incastrare quello che si sta dimostrando sempre di più uno stupratore seriale. Entrambe, con le sfumature di carattere che le rendono diverse, spiccano non solo per qualità lavorative, ma per doti empatiche. Sarà che forse ci sentiamo più coinvolte dal nostro punto di vista rispetto ai colleghi maschietti? O forse, sono il peso delle esperienze passate e delle conseguenze delle nostre azioni a spingerci a dare il meglio per non lasciare che il silenzio si prenda nuovamente la vita di qualcuno?
La mappa si infittisce, compaiono sempre più nomi, sempre più luoghi e dettagli utili, più piste aperte da poter seguire, più storie da indagare.
Pongono l’accento sulle scene del crimine, immacolate, sull’attenzione che l’aggressore riserva all’occultamento delle prove, nel far lavare le vittime per cancellare eventuale DNA, nella meticolosa scelta di non ripetere mai più di una aggressione nello stesso distretto, come se conoscesse molto bene le procedure d’indagine e le mancanze di comunicazione del sistema. Per questo motivo balena loro in mente l’idea che il possibile colpevole sia un poliziotto che gode di informazioni accurate e anche di una certa omertà protettiva all’interno del suo ambiente. Perché si sa, purtroppo, che non si tratta di fantascienza, ma di cose che accadono.

Incredibile diventa anche l’accusa, per niente velata, alla corruzione del sistema di polizia americano, ma che ognuno di noi può riportare nel proprio paese, dove atti di violenza, domestica e non, stupri e aggressioni ad opera di poliziotti e membri dell’arma, vengono sotterrate dagli stessi colleghi e risolte con un trasferimento da una centrale all’altra. 

Terminato l’ottavo episodio ciò che mi ha invaso è stato un senso di tristezza e rabbia e un po’ di timore che possa succedere lo stesso anche a me e che, a mia volta, io non venga creduta. Per questo motivo consiglio la visione a chiunque voglia vederla, c’è bisogno di portare alla luce una realtà sempre più frequente, soprattutto negli ultimi anni, qui in Italia, dove sono notizie quasi all’ordine del giorno. Non devono rimanere notizie che nascono e muoiono in una pagina di quotidiano, dobbiamo ricordarci che si tratta di persone, e c’è bisogno, per poter agire davvero, che queste storie siano portate alla luce e raccontate. 
E ci vuole un sistema che agisca a dovere in caso di denunce di violenza, e che prenda provvedimenti contro chiunque abbia comportamenti aggressivi e violenti, donna o uomo che sia. La violenza contro chiunque andrebbe condannata e smascherata, ma per farlo bisogna essere educati al rispetto degli altri e per sé, alla tempestività delle azioni di allontanamento che in alcuni casi determinano la vita o la morte. Occorre un protocollo che non rimandi.
Unbelievable è incredibile perché rispecchia la nostra società e dà fastidio, ci spinge a non credere che sia così, fa male, ma è giusto che lasci in noi questo sentimento perché è necessario per cambiare le cose.

“La tenebra non può scacciare la tenebra: solo la luce può farlo. L’odio non può scacciare l’odio: solo l’amore può farlo. L’odio moltiplica l’odio, la violenza moltiplica la violenza, la durezza moltiplica la durezza, in una spirale discendente di distruzione.”
(Martin Luther King)






lunedì 16 settembre 2019

La nostalgia delle cose belle: Festival della Comunicazione di Camogli 2019

La nostalgia delle cose belle assale sempre quando meno ce lo aspettiamo: magari siamo stesi a letto a farci gli affari nostri in santa pace ed eccola lì che spunta, quella puntina sempre più insistente che sposta il pensiero direttamente all'esperienza appena passata. E allora non c'é un'ora corretta per fermarsi a ricordare cosa si é vissuto, c'è chi la prova subito dopo, chi a distanza di settimane, e chi, come me, dopo un giorno e mezzo, quando si è tornati alla routine quotidiana e si sente che manca la sveglia la mattina presto, manca intravedere il mare e lavorarvi a pochi passi, mancano persino le persone incontrate in questo breve periodo. C'é il momento di sentirsi così e basta! Arriva quando arriva.
E nonostante il viaggio da pendolari dopo tre giorni si sia fatto sentire, regalandomi una notte di sonno come non ne vedevo da tempo, porto a casa un bagaglio di esperienza bello grosso che temo non entrerà totalmente in macchina, ma a questo punto, anche in previsione del futuro, bisognerà solo comprare un'auto più grossa. (Ironia portami via).

Camogli é stata una novità: primo anno da volontaria, ma non da fruitrice. Incontri interessanti, relatori vecchi e nuovi che si sono dati il cambio sui vari palchi arrovellandosi il cervello, già in ebolizione a causa delle alte temperature, per dare una loro particolare idea di civiltà. Perché civiltà era proprio il tema di questa sesta edizione del festival.

E allora cos'é civiltà?
É tecnologia, inclusione, sostenibilità, dialogo, confronto, evoluzione e anche conservazione, perché i prodotti che funzionano non devono scadere ma essere preservati per diventare modelli di ispirazione.
Tra i miei interventi preferiti cito sicuramente Federico Rampini, Alessandro Barbero, Gianvito Martino, Serena Porcari, Roberto Olivi e Claudio Arrigoni. Ma questi sono solo alcuni che ho avuto la fortuna di poter ascoltare. Perché il festival é un'occasione di stimolo e incontro, soprattutto per chi come me vorrebbe comunicare un giorno, é un'enorme palestra che spinge ad apprendere il piú possibile da ogni intervento e nel far nostri questi "appunti virtuali" che annotiamo, si richiede una piccola riflessione e interiorizzazione personale che attiva il giudizio critico. Tutto questo é indice di civiltá.

Ma civiltà é anche libri, diritti, cultura, laboratori, ricerca, musica. Divertimento.
E Camogli tutto questo lo ha saputo creare da sé, con una cornice perfetta e quattro stupende giornate di fine estate che il tempo ci ha voluto regalare.

Non resta che aspettare con ansia il prossimo anno. Socialitá sará il fulcro.
Ne vedremo delle belle!



Tenebra è la notte - Murubutu, Dia

giovedì 12 settembre 2019

Glee: insegnare la vita cantando. Ecco perché andrebbe vista da tutti almeno una volta!

Mi chiedo spesso in che modo strumenti esterni come musica, letteratura, cinema, televisione possano generare un rapporto intimo con le persone. È un mondo affascinante lo spettro delle emozioni umane, così ampio che ancora oggi non riusciamo a trovarne una fine e forse non è un nostro desiderio farlo. Si creano fili invisibili che legano tra loro persone lontanissime e le avvicinano sempre di più.
Credo che sia chiaro che per me la musica sia diventata uno strumento di gioco, una possibilità di espressione che va oltre la mera parola, connette un livello superiore, entra nei miei pensieri e lì rimane, a popolare sogni e realtà. Senza musica probabilmente mi ritroverei triste. 
Tutto questo non è nato per caso, è sbocciato negli anni, e ce ne sono voluti, per esempio, prima che decidessi di rendere pubblico quello che scrivo aprendo il mio piccolo blog che, come dice il suo nome, non è nient’altro che me e quindi nient’altro che ce.
Ma prima di essere Ce, e di sentirmi a mio agio con me stessa, ho attraversato un periodo in cui avrei voluto essere altro. La persona che ero non mi piaceva, vedevo solo negli altri qualcosa di interessante, invidiavo le qualità altrui e condannavo tante piccole cose che componevano la mia persona.
Forse è per questo motivo che ho sviluppato un attaccamento molto forte a Glee, serie tv americana prodotta da Fox tra il 2009 e il 2015, forse vedevo nei personaggi    dello show una fetta della mia vita. Loro erano degli sfigati, gli ultimi nella scala gerarchica scolastica, affossati dalla scuola stessa, ma nonostante tutto non avevano mai smesso di credere di potersi meritare qualcosa dalla vita, guidati da uno splendido Will Schuester, professore che dovrebbe essere un modello a cui gli insegnanti potrebbero aspirare. 
Avrò avuto sì e no tredici anni quando guardai la prima puntata, e mi cruciavo con i problemi tipici di quell’età, che a pensarli adesso sono davvero banali e stupidi, ma allora avevano un peso sulla mia autostima non da poco. Non sono mai stata una persona chiusa e introversa, al contrario, però c’era qualcosa che mi faceva vergognare di me. Mi consideravo un po’ una sfigata anche se, col senno di poi non saprei definire cosa renda veramente una persona meno di un’altra, mi vedevo come una bambina rispetto ai miei coetanei, evitavo lo sguardo dei cosiddetti “popolari” invidiando qualche like in più alle mie foto, non avevo mai avuto un ragazzo e non ne baciai uno fino ai sedici anni, portandomi un fardello pesante da mandare giù, mi tormentavo con l’idea di non essere come gli altri e anche quando provavo ad assomigliarvi non mi sentivo a mio agio. L’adolescenza è il periodo delle domande a cui non si riesce a trovare una risposta, degli esperimenti, e Glee metteva in scena tutto questo ponendomi di fronte a qualcosa a cui non avevo mai pensato. 
Chi ero io e cosa volevo essere?
Probabilmente quello che mi ha insegnato lo hanno fatto pochi nella vita reale, o almeno non in modo così diretto e naturale allo stesso tempo. È per questo che trovo Glee una delle serie più riuscite di questi anni. Ed è per questo che ha un posto speciale nel mio cuore e che tutti dovrebbero guardarla almeno una volta nella vita.
Io, a distanza di sette anni da quella prima volta, ho schiacciato play di nuovo ringraziando Netflix per averla caricata completa. 
Per chi non lo sapesse, Glee tratta le vicende di un gruppo di studenti liceali di una cittadina di provincia dell’Ohio che decidono di dare nuova forza al corso di canto coreografato della scuola perseguendo il sogno di poter vincere un giorno il trofeo delle nazionali, gara prestigiosa tra diversi istituti del paese. La loro vita non è facile né prima, né dopo aver incassato dei successi. 
Granite in faccia, risate, sotterfugi e lanci nei cassonetti sono all’ordine del giorno, di pari passo con le cattiverie di Sue Sylvester, coach dei Cheerios, la squadra di cheerleader del liceo, che non accetta che altre attività le tolgano risorse e individui.
Ovviamente il modello presentato è quello americano e da noi non ci sono giocatori  di football che ti appendono agli armadietti, anche perché non abbiamo armadietti, ma è il messaggio importante. Non si deve sempre scegliere da che parte schierarsi, si può essere solidali ed entusiasti di far parte di più gruppi se è questo quello che ci rende felici
Così Glee mi ha insegnato il rispetto per sé e per gli altri, mi ha insegnato che si può essere stati bulli e aver deriso qualcuno, ma si può tornare indietro e ammettere i propri sbagli, che il quaterback può diventare il migliore amico di un ragazzo gay, che si possono provare sentimenti per gli amici, che si può essere se stessi anche se si ha una paura boia di scoprirsi e se si è diversi in qualche modo non è perché si è sbagliati, mi ha insegnato che si può avere paura, si possono commettere errori e si può trovare una soluzione. Ci si può innamorare e può andare male, ma anche bene, e che non ci si deve nascondere all’amore. 
Si può essere insicuri e trovare la forza negli altri, si può stare in carrozzina e far ballare tutto il palco, si può essere timidi e intraprendenti, si può essere logorroici e petulanti e rimanere senza più parole. Si possono invidiare gli altri per il loro aspetto, si può desiderare di cambiare per piacere di più, ma stranamente trovarsi sorpresi di quanto si possa star bene con se stessi. Si può essere Loser Like Me ed essere fieri di questo.
Mi ha insegnato che ci sono persone che faranno di tutto per impedirti di riuscire, che ti vedranno sempre come un fallimento e non crederanno mai in te, salvo poi cambiare idea quando si scontreranno con la realtà dei fatti e dovranno riconoscere il tuo talento. Ha reso chiaro che ci sono e ci saranno professori che vorranno il male dei loro ragazzi per interesse personale, e Maestri che tengono ai propri studenti più di quanto ci si aspetti.
Che crescere fa paura e che non ci si sente mai troppo pronti a lasciarsi alle spalle ciò che si conosce. Che inseguire un sogno è l’unico modo per poterlo realizzare. Che le vittorie si raggiungono con impegno, fatica e studio e che se si perde non è una tragedia perché ci sarà sempre una seconda chance.
Che la scuola può essere più che un semplice edificio, può essere una casa, e gli amici una famiglia, e che di insegnanti come Will Schuester ce ne sono davvero e ti fanno sentire amato e compreso anche quando tutto trema, senza perdere la loro professionalità, che si può essere genitori insensibili o amorevoli, che si può trovare un padre, una guida, un coach nel professore di spagnolo.
Che si possono prendere strade sbagliate e si può morire. Che si può andare avanti nonostante la perdita. Che si continua a vivere nel ricordo degli altri. 
Che la musica accende un fuoco e sta a noi mantenerlo vivo, che si possono cantare i problemi, le emozioni, i timori. 
Che si può essere vivi solamente se ci si rende conto di star vivendo senza sprecare il tempo a disposizione.
E ho trovato il discorso di Sue Sylvester e l’esecuzione di I Lived dei One Republic il miglior finale possibile, e l’augurio più grande che un insegnante possa fare ai suoi studenti. Vi auguro di vivere, vivere a pieno, emozionarvi ed essere soddisfatti di quello che avete avuto la possibilità di fare.
Una signora estremamente sovrappeso una sera salì su questo palco e disse a una dozzina di nerd travestiti da figli dei fiori, che il Glee Club, come dice la parola stessa, apre il cuore di chi vi partecipa all’allegria. Non è un segreto che per anni tutto questo mi sia sembrato una cavolata, per come la vedevo io, il Glee Club, era un posto in cui dei codardi perdenti narcotizzavano i problemi cantando e che, poveretti, si illudevano di vivere in un mondo in cui importava qualcosa delle loro speranze e dei loro sogni rifiutandosi di guardare in faccia la realtà. E cioè che nel mondo reale, non ci sono poi tante cose in cui sperare eccetto fallimenti, cuori spezzati e frustrazioni. Indovinate un po’? Avevo perfettamente ragione, il Glee Club è questo, niente di più e niente di meno. Ma mi sbagliavo sui codardi perdenti, quello che alla fine ho potuto constatare, adesso che mi sto avvicinando alla soglia dei quarant’anni, è che ci vuole un’audacia spropositata a guardarsi intorno e vedere il mondo non com’è in realtà, ma come dovrebbe essere. Un mondo Din cui un quaterback diventa il migliore amico di un ragazzo gay, e in cui la rompiscatole col nasone finisce a Broadway. Glee vuol dire immaginare un mondo del genere, e trovare il coraggio di aprire il proprio cuore e cantare i propri sogni. Il Glee Club è questo, e per tutto questo tempo l’ho creduta una sciocchezza, invece ora al ritengo la cosa più spavalda e coraggiosa che una persona possa fare.”
Sue Sylvester, 6x13, I sogni si avverano.


Glee è stata più di una semplice serie tv, è stata una transizione. E se ora come ora sono la persona che sono, è anche merito suo.