Mi chiedo spesso in che modo strumenti esterni come musica, letteratura, cinema, televisione possano generare un rapporto intimo con le persone. È un mondo affascinante lo spettro delle emozioni umane, così ampio che ancora oggi non riusciamo a trovarne una fine e forse non è un nostro desiderio farlo. Si creano fili invisibili che legano tra loro persone lontanissime e le avvicinano sempre di più.
Credo che sia chiaro che per me la musica sia diventata uno strumento di gioco, una possibilità di espressione che va oltre la mera parola, connette un livello superiore, entra nei miei pensieri e lì rimane, a popolare sogni e realtà. Senza musica probabilmente mi ritroverei triste.
Tutto questo non è nato per caso, è sbocciato negli anni, e ce ne sono voluti, per esempio, prima che decidessi di rendere pubblico quello che scrivo aprendo il mio piccolo blog che, come dice il suo nome, non è nient’altro che me e quindi nient’altro che ce.
Ma prima di essere Ce, e di sentirmi a mio agio con me stessa, ho attraversato un periodo in cui avrei voluto essere altro. La persona che ero non mi piaceva, vedevo solo negli altri qualcosa di interessante, invidiavo le qualità altrui e condannavo tante piccole cose che componevano la mia persona.
Forse è per questo motivo che ho sviluppato un attaccamento molto forte a Glee, serie tv americana prodotta da Fox tra il 2009 e il 2015, forse vedevo nei personaggi dello show una fetta della mia vita. Loro erano degli sfigati, gli ultimi nella scala gerarchica scolastica, affossati dalla scuola stessa, ma nonostante tutto non avevano mai smesso di credere di potersi meritare qualcosa dalla vita, guidati da uno splendido Will Schuester, professore che dovrebbe essere un modello a cui gli insegnanti potrebbero aspirare.
Avrò avuto sì e no tredici anni quando guardai la prima puntata, e mi cruciavo con i problemi tipici di quell’età, che a pensarli adesso sono davvero banali e stupidi, ma allora avevano un peso sulla mia autostima non da poco. Non sono mai stata una persona chiusa e introversa, al contrario, però c’era qualcosa che mi faceva vergognare di me. Mi consideravo un po’ una sfigata anche se, col senno di poi non saprei definire cosa renda veramente una persona meno di un’altra, mi vedevo come una bambina rispetto ai miei coetanei, evitavo lo sguardo dei cosiddetti “popolari” invidiando qualche like in più alle mie foto, non avevo mai avuto un ragazzo e non ne baciai uno fino ai sedici anni, portandomi un fardello pesante da mandare giù, mi tormentavo con l’idea di non essere come gli altri e anche quando provavo ad assomigliarvi non mi sentivo a mio agio. L’adolescenza è il periodo delle domande a cui non si riesce a trovare una risposta, degli esperimenti, e Glee metteva in scena tutto questo ponendomi di fronte a qualcosa a cui non avevo mai pensato.
Chi ero io e cosa volevo essere?
Probabilmente quello che mi ha insegnato lo hanno fatto pochi nella vita reale, o almeno non in modo così diretto e naturale allo stesso tempo. È per questo che trovo Glee una delle serie più riuscite di questi anni. Ed è per questo che ha un posto speciale nel mio cuore e che tutti dovrebbero guardarla almeno una volta nella vita.
Io, a distanza di sette anni da quella prima volta, ho schiacciato play di nuovo ringraziando Netflix per averla caricata completa.
Per chi non lo sapesse, Glee tratta le vicende di un gruppo di studenti liceali di una cittadina di provincia dell’Ohio che decidono di dare nuova forza al corso di canto coreografato della scuola perseguendo il sogno di poter vincere un giorno il trofeo delle nazionali, gara prestigiosa tra diversi istituti del paese. La loro vita non è facile né prima, né dopo aver incassato dei successi.
Granite in faccia, risate, sotterfugi e lanci nei cassonetti sono all’ordine del giorno, di pari passo con le cattiverie di Sue Sylvester, coach dei Cheerios, la squadra di cheerleader del liceo, che non accetta che altre attività le tolgano risorse e individui.
Ovviamente il modello presentato è quello americano e da noi non ci sono giocatori di football che ti appendono agli armadietti, anche perché non abbiamo armadietti, ma è il messaggio importante. Non si deve sempre scegliere da che parte schierarsi, si può essere solidali ed entusiasti di far parte di più gruppi se è questo quello che ci rende felici.
Così Glee mi ha insegnato il rispetto per sé e per gli altri, mi ha insegnato che si può essere stati bulli e aver deriso qualcuno, ma si può tornare indietro e ammettere i propri sbagli, che il quaterback può diventare il migliore amico di un ragazzo gay, che si possono provare sentimenti per gli amici, che si può essere se stessi anche se si ha una paura boia di scoprirsi e se si è diversi in qualche modo non è perché si è sbagliati, mi ha insegnato che si può avere paura, si possono commettere errori e si può trovare una soluzione. Ci si può innamorare e può andare male, ma anche bene, e che non ci si deve nascondere all’amore.
Si può essere insicuri e trovare la forza negli altri, si può stare in carrozzina e far ballare tutto il palco, si può essere timidi e intraprendenti, si può essere logorroici e petulanti e rimanere senza più parole. Si possono invidiare gli altri per il loro aspetto, si può desiderare di cambiare per piacere di più, ma stranamente trovarsi sorpresi di quanto si possa star bene con se stessi. Si può essere Loser Like Me ed essere fieri di questo.
Mi ha insegnato che ci sono persone che faranno di tutto per impedirti di riuscire, che ti vedranno sempre come un fallimento e non crederanno mai in te, salvo poi cambiare idea quando si scontreranno con la realtà dei fatti e dovranno riconoscere il tuo talento. Ha reso chiaro che ci sono e ci saranno professori che vorranno il male dei loro ragazzi per interesse personale, e Maestri che tengono ai propri studenti più di quanto ci si aspetti.
Che crescere fa paura e che non ci si sente mai troppo pronti a lasciarsi alle spalle ciò che si conosce. Che inseguire un sogno è l’unico modo per poterlo realizzare. Che le vittorie si raggiungono con impegno, fatica e studio e che se si perde non è una tragedia perché ci sarà sempre una seconda chance.
Che la scuola può essere più che un semplice edificio, può essere una casa, e gli amici una famiglia, e che di insegnanti come Will Schuester ce ne sono davvero e ti fanno sentire amato e compreso anche quando tutto trema, senza perdere la loro professionalità, che si può essere genitori insensibili o amorevoli, che si può trovare un padre, una guida, un coach nel professore di spagnolo.
Che si possono prendere strade sbagliate e si può morire. Che si può andare avanti nonostante la perdita. Che si continua a vivere nel ricordo degli altri.
Che la musica accende un fuoco e sta a noi mantenerlo vivo, che si possono cantare i problemi, le emozioni, i timori.
Che si può essere vivi solamente se ci si rende conto di star vivendo senza sprecare il tempo a disposizione.
E ho trovato il discorso di Sue Sylvester e l’esecuzione di I Lived dei One Republic il miglior finale possibile, e l’augurio più grande che un insegnante possa fare ai suoi studenti. Vi auguro di vivere, vivere a pieno, emozionarvi ed essere soddisfatti di quello che avete avuto la possibilità di fare.
“Una signora estremamente sovrappeso una sera salì su questo palco e disse a una dozzina di nerd travestiti da figli dei fiori, che il Glee Club, come dice la parola stessa, apre il cuore di chi vi partecipa all’allegria. Non è un segreto che per anni tutto questo mi sia sembrato una cavolata, per come la vedevo io, il Glee Club, era un posto in cui dei codardi perdenti narcotizzavano i problemi cantando e che, poveretti, si illudevano di vivere in un mondo in cui importava qualcosa delle loro speranze e dei loro sogni rifiutandosi di guardare in faccia la realtà. E cioè che nel mondo reale, non ci sono poi tante cose in cui sperare eccetto fallimenti, cuori spezzati e frustrazioni. Indovinate un po’? Avevo perfettamente ragione, il Glee Club è questo, niente di più e niente di meno. Ma mi sbagliavo sui codardi perdenti, quello che alla fine ho potuto constatare, adesso che mi sto avvicinando alla soglia dei quarant’anni, è che ci vuole un’audacia spropositata a guardarsi intorno e vedere il mondo non com’è in realtà, ma come dovrebbe essere. Un mondo Din cui un quaterback diventa il migliore amico di un ragazzo gay, e in cui la rompiscatole col nasone finisce a Broadway. Glee vuol dire immaginare un mondo del genere, e trovare il coraggio di aprire il proprio cuore e cantare i propri sogni. Il Glee Club è questo, e per tutto questo tempo l’ho creduta una sciocchezza, invece ora al ritengo la cosa più spavalda e coraggiosa che una persona possa fare.”
Sue Sylvester, 6x13, I sogni si avverano.
Glee è stata più di una semplice serie tv, è stata una transizione. E se ora come ora sono la persona che sono, è anche merito suo.
Don't Stop Believing - Journey
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