lunedì 27 gennaio 2020

Jojo Rabbit: l'ironia che può insegnare a combattere la paura

Jojo Rabbit non è solo un film da vedere tanto per, è il Film che abbiamo bisogno di vedere in questo periodo storico, e dobbiamo correre al cinema tutti, nessuno escluso, perché possiamo sempre imparare qualcosa.

Oggi, in occasione del Giorno della Memoria, vi propongo un breve commento. Dopotutto ci sono stati tanti Jojo e ce ne potranno essere ancora molti perché, come ci insegna Vico e la storia stessa, viviamo una serie di corsi e ricorsi storici e il passato non è tanto lontano quanto crediamo. Ecco perché è necessario che si ricordi e si tramandi quello che siamo stati per migliorare quello che siamo e dare speranza a quello che saremo.

Jojo Rabbit nella sua semplicità cerca di coinvolgere il suo pubblico in un viaggio, un percorso fatto di errori e falsi miti che possono indurci a sbagliare, ma allo stesso tempo ci propone il più potente mezzo a nostra disposizione per abbattere questi ostacoli ovvero . È attraverso l’incontro e la conoscenza reciproca che impariamo a smascherare le differenze e proviamo a costruire qualcosa insieme.
Ma quanto siamo influenzati dalle idee degli altri? Quanto siamo disposti a perdere pur di perseguirle in tutto e per tutto? E come possiamo accorgerci di vivere in una grande illusione?

Sono tutte domande che nascono spontanee. Il peso della propaganda, allora come oggi, è un ombra incombente che modifica e oscura l’intera realtà, e se già è difficile combatterla da adulti, figuriamoci quando non si è nemmeno ragazzi.
Jojo ha dieci anni e mezzo e vive nella Germania nazista durante la Seconda Guerra Mondiale che fa da scenografia alla sua vita con il rumore di esplosioni e di colpi di fucile. È un bambino perfetto: ariano, biondo, occhi azzurri, vivace e tremendamente invasato nel venerare la sua religione preferita, il nazionalsocialismo.
Ha un migliore amico, Yorki, con cui condivide le esperienze della gioventù hitleriana con fervido entusiasmo e nessuna esitazione correndo per i boschi al grido di “bruciamo un po’ di libri”. 
Jojo ha una motivazione in più rispetto ai suoi compagni che lo spinge a essere così fedele al Reich. Il suo migliore amico immaginario è niente di meno che Hitler in persona che lo consiglia, lo canzona, lo motiva offrendosi come spalla quando lo vede giù di morale. Il perfetto supereroe che ogni bambino desidererebbe. Ma la sua vita all’improvviso cambia per sempre e lui, Jojo l’impavido, diventa Jojo coniglio, trovandosi a percorrere una strada sconosciuta, un viaggio verso la verità e la ricerca di se stessi.

La propaganda dopotutto non è altro che un velo di Maya che deve essere scoperto per permetterci di vedere oltre la realtà che ci hanno costruito e in cui ci hanno imposto di vivere. Possiamo riuscire a togliercelo da soli o possiamo avere bisogno di un aiuto esterno. Per Jojo è fondamentale Elsa, la giovane ebrea che vive nascosta nella parete di casa loro. Elsa è severa, attenta, gioca la sua vita misurando i silenzi e le parole, sogna la libertà che le è stata portata via e cerca di insegnare a Jojo a guardarsi dentro, oltrepassando e distruggendo la sua corazza di nazista e le false dicerie che gli sono state tramandate per introdurlo alla vita reale, quella in cui ariani ed ebrei non sono appartenenti a gruppi diametralmente opposti, ma possono essere amici, o perlomeno persone da rispettare.

Nessun uomo è meglio di un altro, nessuna persona può decidere della vita di un’altra, un concetto tanto forte quanto distorto nella nostra società dove ha assunto un significato più orwelliano, in altre parole, parafrasando la “Fattoria degli animali”, “Tutti gli uomini sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri”.
In un tempo in cui si giustifica tutto, dove la memoria del passato non sembra avere alcun valore se non per due giorni l’anno, e dove le persone si inaridiscono e inibiscono lasciando commenti su un social pensando di potersi fare giustizia da soli, Jojo Rabbit colpisce il centro, alleggerendo gli occhi e facendoci riflettere sul nostro potere di essere uomini dotati di intelletto, e lo fa servendosi dell’ironia, la chiave che può diventare la migliore arma per sconfiggere la paura.
Esilarante, comico, sarcastico, a tratti drammatico e con una punta di commozione sul finale, è un film che può risvegliarci dal torpore della zona grigia, soprattutto noi italiani, e restituirci la capacità di emozionarci.

Jojo Rabbit è il nuovo film di Taika Waititi, in corsa agli Oscar 2020 con numerose nomination tra cui spiccano Miglior film e Migliore attrice non protagonista per una splendida Scarlett Johansson nei panni della madre di Jojo. Waititi non è solo il regista, interpreta anche Adolf Hitler caricaturando il personaggio con aspetti che ricordano il Grande Dittatore di Chaplin. Spicca la vena umoristica nei movimenti e nel parlare del Fuhrer che lo rendono più simile ad una marionetta figlia dell’immaginazione di un bambino rispetto a un personaggio reale. Noterete infatti che non viene mai mostrato il dittatore come capo del Reich e che le uniche apparizioni di Hitler sono le proiezioni mentali di Jojo, come se appunto non fosse che un costrutto fantastico.
Attraverso questa scelta viene sminuito anche il peso dell’ideologia nazi-fascista: le loro idee appaiono ridicole, quasi no-sense, portando la platea a sorridere in molte scene (una su tutte è l’esempio di estremizzazione del culto della personalità che spinge i cittadini a salutarsi con quindici “Heil Hitler” di seguito).
Pesantemente criticata è anche l’idea di appartenenza al nazismo: le persone non sanno cosa stanno combattendo, non credono nemmeno a quello che gli viene detto, lo appoggiano per sentirsi parte di qualcosa. 

Infine, tutta la pellicola oscilla tra bene e male, reale e immaginario senza mai tracciare un confine netto, lasciando al corso della storia lo spazio necessario per crescere, svilupparsi e raggiungere una consapevolezza diversa sfidando l’ostacolo più grande che è combattere se stessi e le proprie convinzioni. Jojo impara a conoscere il nemico, lo studia, lo prende in giro per creare un muro di distanza, senza accorgersi di star livellando il terreno rendendolo sempre meno differente, aggiungendo tanti piccoli tasselli al puzzle della sua vita che renderanno quasi impossibile non innamorarsene.
  
“Lascia che ti accada tutto
Bellezza e terrore
Vai avanti così
Nessuna sensazione è definitiva "


                                                       Rainer Maria Rilke




sabato 18 gennaio 2020

Sex Education 2: Non solo sesso e non solo ragazzi

Si comincia sempre con un gran rumore che poi, piano piano, scema verso il silenzio della normalità. 
È così che ritorna su Netflix, ad alleviare le mie giornate da studente in crisi, Sex Education (creata da Laurie Nunn), con otto nuovi scintillanti episodi che rinnovano la mia idea che questa sia una serie che andrebbe vista dal maggior numero possibile di persone. 
Un po’ di Skam e un po’ di Skins alla base di quella che si è rivelata una serie che non solo parla di ragazzi, ma che arriva proprio a creare una connessione con loro senza dipingerli come esagerati o lontani dall’idea reale di quello che sono. È per questo che ognuno si può un po’ ritrovare in una sfumatura di carattere, in un comportamento o in un intero personaggio.

Non solo sesso e non solo ragazzi, in questa seconda tappa, la vera novità è il mondo dei “grandi”, gli adulti che volenti o nolenti si ritrovano ad affrontare una vita non troppo distante dai loro pargoli adolescenti e che hanno bisogno, alle volte, che siano questi ultimi a salvarli dalle paure che li affliggono.
Perché sì, anche i “grandi” possono essere spaventati. E si, il sesso può essere un problema anche per loro.

Nell’atmosfera caotica di una scuola superiore britannica, tra persone che credono di essere state contagiate dalla clamidia attraverso uno starnuto, e professori che non sanno nemmeno bene di cosa parlano quando tengono il corso di educazione sessuale, il povero e cervellotico Otis (Asa Butterfield) si ritrova a fronteggiare i suoi bisogni fisiologici, scoprendo le potenzialità del suo corpo, simpaticamente preso in giro dal suo migliore amico Eric (Ncuti Gatwa) anch’egli assillato da problemi di cuore legati al nuovo arrivato, l’affascinante francese Rahim. 
Allo stesso tempo, Otis, cerca di tenere in piedi la sua relazione con l’effervescente Ola (Patricia Allison) minata dalla figura onnipresente di sua madre Jean (Gillian Anderson) che frequenta il padre della sua ragazza, portando entrambe le coppie a situazioni ai limiti dell’assurdo.
La Clinica del Sesso, che nella prima stagione era stata l’ancora di salvezza di gran parte del corpo studentesco, messa sù da Otis e Maeve (Emma Mackey), è in crisi, dal momento che Jean si è offerta gratuitamente come tutor per accogliere le domande e i problemi dei ragazzi contro il volere dell’austero e conservatore preside Groff (Alistar Petrie) che vorrebbe tenere il sesso lontano dal suo istituto.

La minaccia all’integrità e al rigore sembra essere la chiave esistenziale della lotta del signor Groff ben oltre la sua figura professionale di preside. Nell’ultimo episodio della scorsa serie, infatti, lo avevamo visto spedire alla scuola militare suo figlio Adam (Connor Swindells) considerato esclusivamente come un porta guai e un fallimento che era meglio raddrizzare. In questa nuova avventura lo vediamo preoccupato e instabile, come se accettare i problemi cui deve far fronte, non solo lo infastidisse ma generasse in lui un conflitto interiore tra il suo essere uomo, padre, marito e preside.

In questa stagione è di grande rilievo, secondo me, l’aspetto relazionale tra genitori e figli che spesso si trova alla base di conflitti silenziosi e opprimenti che si preferisce ignorare piuttosto che fronteggiare, sia da un lato che dall’altro, impedendo a tutti di vivere completamente la propria vita. Gli adolescenti possono essere complicati e spesso hanno bisogno di guide che lubrifichino i binari del loro treno senza imporre però una strada precisa da seguire. I genitori, soprattutto quando si rendono conto di star perdendo un po’ le redini del gioco, soffrono questo allontanamento e tendono a cercare di recuperarlo in ogni modo andando ad oscurarne un po’ le cause. 

Ansia sociale e da prestazione però non si trovano solo tra le lenzuola di un sedicenne che vuole perdere la verginità perché lo deve fare.

La paura di crescere e di essere quello che si è, si insinua nelle scelte che prendiamo, nei pensieri che si dipingono quando si guarda al futuro e nelle amicizie che ci accompagnano lungo il cammino. 
Diventa quindi fondamentale capire chi siamo, cosa ci piace, cosa temiamo e cosa vogliamo essere. E questo è un percorso che si può fare a sedici, a venti, a quaranta o cinquant’anni perché  si può rinascere anche quando non lo crediamo possibile, basta solo trovare il giusto modo.
Ho trovato che Sex Education 2 si sia quasi superato andando ad approfondire e unire i tasselli che aveva lasciato in sospeso l’anno scorso, portando in scena un prodotto giovane, diretto, ma più consapevole del valore educativo che lo accompagna e di conseguenza più maturo nei temi trattati.
Il fulcro rimane l’imperfezione. Nell’aspetto fisico, nel carattere, nelle relazioni, nel sesso, nelle famiglie e nelle carriere scolastiche, i nostri personaggi non sono degli eroi irraggiungibili, sono persone alla portata di tutti che dubitano delle proprie potenzialità e si illudono di far bene anche quando non è realmente così.
Insomma, a quanti di noi è capitato, per stupire o fare bella impressione, di cercare consigli su internet che si sono rivelati fallimentari? E quanti hanno cercato le risposte ai loro dubbi sempre online?
Questo probabilmente perché chiedere a un computer di aiutarci è più facile oltre che veloce. Non ci vergogniamo, nel buio della nostra camera, a chiedere ad una macchina perché ci piace una ragazza, perché non riusciamo ad avere un orgasmo, perché non ci va di fare sesso anche se tutti ci dicono che dovrebbe andarci.
È difficile parlarne anche con i propri amici più fidati. Sex Education porta in scena questi problemi dandoci una grande chiave di lettura: l’ascolto.

Imparare ad ascoltare noi stessi e gli altri può farci superare qualche barriera. La vergogna si può sconfiggere con la fiducia del dialogo, così come la disinformazione.
Si può essere un ragazzo ed essere bisessuale senza che questo ci faccia sentire meno uomini di altri.
Si può essere pansessuali e confusi. 
Si può essere asessuali e non avere desiderio di avere relazioni intime con qualcuno, ma nonostante questo avere voglia di innamorarsi lo stesso.
Si può essere degli impacciati cronici e rovinare tutto per poi rendersene conto.
Si può essere disabili e ambire ad una ragazza che ci sembra “troppo" per noi.
Si può soffrire di vaginismo e avere paura anche solo ad immaginarci a letto con qualcuno, ma non per questo ci è vietato trovare una soluzione che ci aiuti a superare questa condizione.
Si può aver subito una molestia, che è assai più diffusa della violenza, e può servirci del tempo per ritrovare il coraggio di tornare alla normalità.
Si può voler smettere di seguire il sogno di qualcun altro anche se questo può far soffrire chi ci sperava.

E possiamo trovare un amico in chi non avremmo nemmeno degnato di uno sguardo solo perché si è mostrato per quello che davvero è.

Nel suo essere semplice, Sex Education, racconta la complessità di un mondo che scorre, va avanti, si inceppa e riprende il suo cammino e lo fa con delicatezza e schiettezza allo stesso momento. 
Questo perché le persone hanno bisogno di poter parlare ed essere ascoltate e spesso trovare le risposte a domande che non si erano nemmeno mai posti.


When You're young and in love - The Flying Pickets



giovedì 14 novembre 2019

Siamo mica un po' tutti Ponzio Pilato?

Da quando siamo diventati così indifferenti a tutto quello che ci circonda? Che cosa ci ha fatto convincere che, a volte, sia necessario voltarsi dall’altra parte invece che prendere una posizione?

La verità, purtroppo e con un senso di magone che attanaglia gola e stomaco, è che ci stiamo riducendo ad essere tanti piccoli Ponzio Pilato, con una differenza bella grossa: non abbiamo lo spessore che questo personaggio portava con sé, la capacità di non condannare un uomo solo perché altri lo condannavano a priori, gonfiati da altri ancora che si presentavano come detentori della verità assoluta, incontestabili. Tuttavia, noi, continuiamo a lavarci le mani in qualsiasi situazione non ci coinvolga direttamente come vittime, costantemente in lotta tra il Barabba e il Gesù del momento, incapaci di distanziarci da ciò che ci viene proposto come accettabile. Stiamo perdendo la capacità di cogliere i segnali e attribuire il giusto peso alle cose, che non sono tutte uguali, e non lo devono essere.

“Se le vittime sono gli altri, cosa me ne frega a me? Cosa mi dovrebbe spingere a schierarmi? Perché limitare il pensiero del mio vicino di casa? E vabbè dai, era una battuta. Ridi!” 
Che belle stronzate.

Sono frasi che non dovrebbero neanche attraversarci la testa: dovremmo essere i primi, forti della memoria che ci è stata raccontata dai “grandi”, dai genitori, dai nonni, dai testimoni del tempo, a capire che aiutare l’altro in difficoltà, tendere la mano, confrontarsi con il diverso e cercare un dialogo che avvicini e non respinga, debba essere la strada giusta per non perderci. Prestando attenzione al fatto che accettare non significhi dover diventare uguali agli altri come qualcuno tende a farci credere, e che libertà significa diritti e che i diritti possono essere di tutti in egual misura senza ledere l’orgoglio vitale di ognuno di noi.
"My God is better than yours
And the walls of my house are so thick
I hear nothing at all"
Ma per farlo abbiamo bisogno di esistere e resistere come persone, entità singole in grado di vivere in società, pensare e dubitare che quello che ci viene proposto o che sentiamo in strada, in negozio, in casa, non sempre sia da prendere così com’è. Imparare dagli altri, riconoscere che la propria posizione, a volte, è solo vincolata ad un unico tipo di informazione, capire che ci si può conoscere e incontrare, per la prima volta, a tre anni, così come a dieci, a venti, a cinquanta e a ottantasei. E che ci si può stupire che le nostre idee, fino ad allora portate avanti, non erano altro che scudi che ci difendevano da qualcosa di lontano da noi, ma di esistente, vivo e pulsante che aveva bisogno di una spinta per entrare nella nostra vita, lasciandoci lo spazio per analizzare e trovare un nostro compromesso.
Bisogna tuttavia essere disposti a spogliarsi di pregiudizi, innocui o violenti, mettendo da un lato la “pancia” e rendendo disponibili la parola e la testa.

Non è solo il bimbo di colore attaccato sull’autobus, non sono gli sguardi che attraversano e scannerizzano ognuno di noi tutti i giorni, non è la disabilità, non sono i post su Facebook e i cori da stadio, non è l’astio di alcuni anziani verso i giovani né viceversa, non sono le prediche e i sermoni, non sono i giudizi, non sono i sorrisi ironici, e non è nemmeno l’indifferenza e l’incoerenza. 
Non sono queste cose, ma sono tutte queste cose, ad annullarci come individui e ad assimilarci a una massa informe, che si muove in una direzione sola, attaccando, a seconda del momento, questo o quello, facendosi paladina di una libertà di parola, espressione e pensiero, che dovrebbe considerare di fermarsi quando va ad offendere chiunque altro, in nome, se non della ragione e del rispetto, almeno del buonsenso.

Sono Cecilia, ho venti anni, sono una ragazza e sono genovese orgogliosa di esserlo, italiana per tutta la vita, europea perché un giorno spero di trovarvi la mia strada il mio futuro condividendolo con altri, “cittadina del mondo” perché sono umana e ne sono innamorata. Ho la mia testa e capita che mi ci scontri. Credo nell’uguaglianza e nel bisogno di essere curiosi ma vigili allo stesso tempo, e a volte, ho paura di essere anche io indifferente al mondo che mi circonda, per questo motivo ho bisogno di raccontarmi, leggere e vedere che esistono persone che si battono ogni giorno, su tutta la Terra perché tra trenta, quaranta, novant’anni, ci possano essere migliaia di altri come me.

Liberi, in pace, a cui la vita consente di poter scegliere, sperando di non dover mai presentarsi con delle scuse solo per il fatto di essere come si è.


"As the waves crash high
And the shoreline disappears
I will scream to the sky
"Hey, people live here."




La canzone di cui sono citate due strofe è People Live Here - Rise Against 
Il consiglio musicale per il post è Human - Rag'n'Bon Man









domenica 3 novembre 2019

Scary Stories To Tell In The Dark

Avete presente le storie dell’orrore che si raccontavano la notte, sfidando la paura dei rumori sospetti, illuminati solo dalla luce di una torcia?
Ecco, immagino che ognuno di noi ne abbia raccontato almeno una e ascoltate molte, sono tutte storie spaventose da raccontare al buio o meglio, Scary stories to tell in the Dark.

“Qualcuno crede che se ripetiamo tante volte le storie, esse diventino reali. Ci rendono ciò che siamo”

Ecco che l’orrore esce fuori dallo schermo del cinema per proiettarsi nella realtà di tutti i giorni, perché la paura spesso è più viva e reale di quanto immaginiamo.
Nella cittadina di Mill Valley, in Pennsylvania, è il 1968, e la sera di Halloween è alle porte così come le elezioni presidenziali che proiettano su tutti gli schermi il faccione di Nixon. Stella, Chuck e Auggie dopo aver sfidato a colpi di uova i bulletti del liceo, si ritrovano a scappare nel bosco in direzione di una casa abbandonata che si dice essere infestata e che un tempo era appartenuta alla famiglia dei Bellows. 
Un alone di mistero avvolge il nome di questa ricca discendenza, e la leggenda narra che una delle figlie, Sarah, internata e murata viva nell’oscurità del seminterrato, racconti storie dell’orrore ai bambini attraverso il muro e che questi, poco dopo, muoiano.
Ma quanta verità c’è dietro una voce metropolitana? E poi, non bisogna fare i fifoni e credere ai fantasmi, insomma, non esistono. 
Quanti di noi pensano che arrivati ad una certa età non si abbia più il diritto di avere paura dei mostri?
Se fosse così, ci sbagliamo.
Nella casa dei Bellows, Stella, ritrova il famoso libro di storie di Sarah, le parole scritte con il sangue sulle pagine ingiallite che sembrano avere il potere di attivare ciò che stanno raccontando.
“Raccontami una storia Sarah Bellows. Raccontami una storia Sarah Bellows.”
Perché le storie vivono, non sono confinate alla carta. E le storie compaiono quando meno ce lo aspettiamo e non sempre siamo in grado di fermarle.


Scary Stories To Tell In The Dark è il nuovo film di André Øvredal, regista di Troll Hunter, sceneggiato da Guillermo del Toro, dall’omonima serie di libri di Alvin Schwartz, e uscito nelle sale italiane il 24 ottobre 2019. 
È una storia di mostri: immaginari e figli della paura, quanto reali e figli del nostro tempo. Il clima di provincia evidenzia caratteri sociali quali la segregazione, il razzismo esplicito e crudele, il disprezzo, la guerra in Vietnam, temi caldi sul finire degli anni sessanta. 
I protagonisti sono adolescenti, amici e un po’ emarginati per la loro condizione, ma affiatati e vogliosi di rompere i soliti stereotipi legati alle tradizioni passate. Stella vuole diventare scrittrice e ha una camera tappezzata di poster e riferimenti a film dell’orrore di cui è appassionata, sembra quasi che non abbia paura di nulla e a volte si butta ingenuamente nelle cose, vive sola con suo padre dopo che la madre li ha abbandonati quando era piccola; Ramon, al contrario, è discreto e cerca di passare nell’ombra, crede alla paura reale più di quella immaginaria e ha un segreto nascosto che non può rivelare.
Ho trovato analogie e somiglianze con alcuni prodotti dell’horror contemporaneo, per esempio con It di Stephen King, probabilmente per la scelta dei protagonisti, per la paura stessa usata come strumento e arma, e per l’evoluzione e la crescita dei ragazzi. Diventare grandi e tutto ciò che ne comporta può risultare assai spaventoso e difficile da gestire.
Ho apprezzato molto l’idea della storia come entità dotata di un peso reale e una vita propria e non limitata solo ad inchiostro freddo: leggendo tra le righe possiamo pensare al peso che le parole hanno e che a volte le nostre storie, seppur inconsapevolmente, possono ferire e uccidere qualcuno per alleviare il nostro dolore.

Rimanendo perfettamente in tema Halloween, i toni gotici e dark sono evidenziati dalle atmosfere notturne, dalla spettralità e maestosità della casa che ricorda i grandi manieri delle opere ottocentesche. La notte e il buio sono grandi protagonisti, le storie, infatti, compaiono ogni sera, trascinando nell’oscurità le proprie vittime. Menzione speciale alla colonna sonora che sa spingere quando serve andando a creare un velo di souspance che ci tiene incollati alla visione. 
Non è un horror come ce lo si aspetterebbe, non è un susseguirsi di scene paurose e jump scares, per cui se è questo quello che cercate non lo troverete, è un film che sa fare della paura una chiave di lettura e sa puntare sulle sue creature, frutto degli effetti speciali, per stupire lo spettatore.


I mostri sono spesso rappresentati come brutti, deformi, ingombranti e violenti, ma non sempre riusciamo a capire che sono il riflesso di una sofferenza più profonda e l’immagine della nostra stessa paura che non riusciamo a vedere, e che trova nel fare male agli altri l’unica via d’uscita per liberarsene per sempre.





martedì 15 ottobre 2019

DION

Quanto ci piace fantasticare sul futuro e immaginare che il mondo soprannaturale non sia poi così distante dalla nostra realtà di tutti i giorni?
A me personalmente tantissimo, e credo che un paio di superpoteri farebbero al caso mio per risolvere gli inghippi della vita.
Ma per essere un bravo super non bastano l’invisibilità, la telepatia o il teletrasporto. Serve imparare a vivere e usare la propria unicità come un’arma a servizio di noi stessi e degli altri.
In questa storia non parliamo di futuro, ma di presente, il nostro tempo e il nostro decennio.
Dion (Ja'Siah Young) ha sette anni, quasi otto, è vispo, curioso, appassionato di eroi e videogiochi, ama i lego e la scienza che è ciò che lo lega a suo padre Mark (Michael B. Jordan), di cui è rimasto orfano che di mestiere faceva il ricercatore per conto della Biona, un ente di ricerca che si occupa di fenomeni atmosferici. 
Nicole (Alisha Wainwright), la madre, è una donna premurosa e attenta, che si divide tra casa e lavoro cercando di occuparsi al meglio del figlio appoggiandosi anche alla spalla di Pat (Jason Ritter) che ha assunto per il bimbo il ruolo di padre e mentore ed era un collega e amico di Mark.

Ma come fare se misteriosamente a colazione i cereali non li versi più tu ma sono loro stessi a versarsi nella tazza? Oppure se mentre sei arrabbiato cominci a far tremare la lampada? E soprattutto, se non ci si riesce a fermare in tempo? 
Sono notizie piuttosto sconvolgenti per una qualsiasi persona, figuriamoci per un bambino di quell’età, che, come è giusto che sia, ovviamente, coglie la cosa come la più fica delle situazioni e la inizia ad usare a suo piacimento. E allora però, come si imparano a dosare i poteri? Esiste una scuola o basta solo ricercare in se stessi?
 
È una domanda complessa alla quale non riusciamo e non vogliamo dare risposta per tutti gli episodi, ci avviciniamo alla soluzione ma è come se volessimo conservare un po’ di quel briciolo di fantasia che associa la padronanza della magia e degli attributi extra a qualcosa di più di semplice esercizio, a qualcosa che si ha dentro. D'altro canto la magia non è campata in aria ma circondata da un alone di mistero che ci porta a credere che possa realmente essere possibile in un futuro prossimo dotarsi di capacità fuori dal comune.

Come per chiunque però, non tutto è rose e fiori, e la vita di Dion è minacciata da un preside razzista che non lo vede di buon occhio, da un gruppetto di ragazzini che non fanno altro che escluderlo dal loro gruppo e da uno strano nemico, presente e burrascoso, che terrorizza come lui altre persone e che, senza farsi sentire, spia di nascosto ogni piccolo movimento per trovare il giusto momento e attaccare. 

Dion è un bambino, certamente, ma è anche l’incarnazione dello spirito di ogni supereroe che si rispetti: premuroso, a volte irruento ma dall’animo gentile e altruista, che nonostante tutto si comporta come dovrebbe comportarsi un qualsiasi bimbo di sette anni, e che, tra qualche capriccio e disubbidienza, capisce che ad ogni azione corrisponde un effetto anche se non immediato.

Non sono solo i personaggi fisici i protagonisti di questa serie Netflix, creata da Carol Barbee e Dennis A. Liu prodotta nel 2019 basata sull’omonimo fumetto di Liu del 2015; 
diventano protagonisti anche le emozioni: la paura che fa perdere la calma e tremolare la luce, la felicità di un abbraccio e la gratitudine del perdono per le incomprensioni, la solitudine del sentirsi diversi racchiuso nel personaggio splendido e dolcissimo di Esperanza (Sammy Haney), una bimba in sedia a rotelle, sempre sorridente e genuina, che osserva “invisibile” il mondo intorno a lei e  che difende in tutto e per tutto il suo “migliore amico” Dion insegnandogli il vero significato di amicizia. 
Ma anche il dubbio e la confusione di non sapere cosa si è davvero e cosa si potrebbe realmente fare hanno largo spazio lungo la narrazione, perché in fondo cosa è bene e cosa è male non siamo sempre in grado di deciderlo come se fosse un test a crocette, e scegliere da che parte stare si accompagna a non pochi sacrifici e sofferenze. Dion è umano in tutte le sue sfumature e rende davvero difficile non affezionarsi al suo personaggio. 

Fusione perfetta tra fantascienza e thriller, nasconde nella sua semplicità messaggi importanti e delicati trattandoli normalmente, nulla di eclatante, ma con semplicità. Scorrevole e travolgente, finita nel giro di un paio di giorni. Mantiene incollati allo schermo creando suspense e voglia di continuare sempre di più andando oltre la banale convinzione che un supereroe debba combattere ad ogni costo per risultare convincente.

L’energia si crea ma non si distrugge, e una volta sconfitta, cambia solo forma ma non se ne andrà mai davvero.



Storm - Victor Crone


venerdì 11 ottobre 2019

Se veniamo spinti ad ignorare, impariamo ad aprire gli occhi

Siamo portati sempre più a credere che l’intrattenimento, l’informazione e le piattaforme social che utilizziamo tutti i giorni e che ci vengono proposte siano libera, e ci viene da storcere il naso solo quando ci ritroviamo di fronte a sistemi sociali di altri paesi, dove la libertà di parola, di pensiero e di espressione, non esistono realmente e dove si censurano determinati prodotti. Quello di cui non ci rendiamo conto è che, seppur in maniera diversa e con minore potere, anche noi non siamo poi così liberi.
Viviamo in un mondo che sempre di più comincia a programmare e selezionare, come se avesse un’agenda, gli argomenti a cui sottoporre la nostra attenzione. Nel linguaggio della comunicazione si parla di agenda setting, decido di stabilire un ordine di priorità su cui devio l’opinione pubblica: certe notizie avranno grande spazio, altre non verranno nemmeno citate. Fino a qualche tempo fa si attribuiva solo all’industria televisiva e dei mass media, ora si cominciano a vedere gli effetti anche sulle piattaforme digitali. 
Questo ci induce a restare vigili e controbattere informandoci da soli su ciò che non ci viene proposto; per farlo possiamo ricorrere a giornali (online e cartacei), ma anche alle nuove frontiere dell’informazione altrettanto utili e spesso ignorate da un target più adulto. Per esempio l’ala di YouTube Italia che si occupa di attualità e informazione è preferita dai giovani e vanta canali seguitissimi come Breaking Italy, condotto da Alessandro Masala (Shooter Hates You) con la formula di una sorta di telegiornale quotidiano online, o WesaChannel, o ancora GioPizzi[1]e molti altri. Tutti loro, con format differenti propongono un tipo di informazione ampio e variegato approfondendo temi sociali, economici, politici italiani, europei e mondiali proponendo spunti che non si trovano altrove e suggerendo letture o riferimenti esterni. Questi prodotti funzionano in quanto vengono percepiti slegati dal sistema di programmazione, sono più indipendenti, tuttavia, per questo motivo, spesso vengono sanzionati dalla stessa piattaforma che demonetizza i video, non favorisce l’entrata in tendenza (e quindi il raggiungimento di un più ampio pubblico), fino ad eliminare gli stessi video (massima soluzione adottata, di norma, solo in caso di violazione delle regole, che quindi non trova motivazione nei loro confronti

Se quindi ci ritroviamo davanti una società che tende ad ignorare determinati argomenti, che tende a censurare silenziosamente chi li propone, cosa vuol dire prestare attenzione?
1)    Vuol dire permettere in parte una resistenza. Dobbiamo ricordarci che la libertà di pensiero parte da noi cittadini e che la libertà, nel suo significato più ampio e generale, è sia un diritto che un dovere. Se iniziamo ad accomodarci a società che sono tutt’altro che libertarie finiamo a rimetterci ben più di qualche miliardo.
2)    Ci tiene a tenere a mente che esistono interessi che vanno oltre quelli economici e che dovrebbero seriamente essere presi in considerazione dai capi di governo, da chi gestisce provvedimenti e progetti. Siamo uomini dotati di intelletto non solo per fare manovre finanziarie, ma per empatizzare e lottare per il giusto e “schierarsi” può voler dire perdere qualcosa.
3)    La censura, da silenziosa a presente, ci mette un attimo a trasformarsi ed è pericolosissima. Diventa altrettanto spaventoso che società libere e democratiche scelgano di appoggiare, in nome di interessi altri, l’approvazione o la disapprovazione di topic proposti. Di questo si parla, di quest’altro meglio di no, di questo fai come vuoi ma se scoccia lo togliamo o ti puniamo.
Non stiamo parlando solo della Cina [2]che ormai aleggia come uno spettro sopra le teste di tutti ed è capace di mettere in ginocchio con un dito, non è nemmeno la Turchia di Erdogan che gioca a scacchi con l’America sacrificando migliaia di persone. Parliamo nel piccolo dell’Italia, dell’Europa, dell’America stessa che, con un click, possono scegliere di “spegnere” le piattaforme digitali a qualcuno perché indesiderato.
Scomodo.
Ma cosa diventa scomodo al giorno d’oggi: il messaggio, il contenuto del video, il canale, il fatto che digitale diventa virale in un attimo anche se si prova a cancellarne traccia? O la possibilità che chiunque, ogni singolo cittadino, possa accedere a quel contenuto e quindi formarsi un’opinione non in linea con la scelta governativa?
È scomoda la libertà che tanto ci caratterizza. La vogliamo e la predichiamo, ma quando ne siamo in possesso ci spaventa e ci rende titubanti. 
È una domanda legittima che ci dobbiamo porre e alla quale possiamo rispondere continuando a informarci e a farci un’idea nostra, pretendendo che si prendano posizioni nette nei confronti di ciò che succede nel mondo.
Ricordiamoci che della privazione della libertà altrui ne risente anche la mia, e che si comincia pian piano per arrivare a risultati ecclatanti.



People Live Here - Rise Against

[1]Il cui ultimo video, sulla situazione dell’instabilità siriana e sull’invasione turca, è stato demonetizzato ingiustamente. Link: https://youtu.be/w3KZ2KXze6c

[2]È noto il provvedimento preso dalla Blizzard, casa produttrice di videogiochi statunitense, che ha sospeso per un anno un  giocatore di Hearthstone, dopo che lui aveva espresso solidarietà ad Hong Kong

venerdì 20 settembre 2019

Unbelievable. Incredibile


Incredibile.
Perché non ci sono segni di effrazione o scasso, non ci sono tracce di fluidi corporei, il coltello appartiene alla vittima che non riesce a far combaciare le molteplici versioni che è costretta a dare alla polizia. Incredibile, perché essendo una “giovane a rischio”, con un passato difficile alle spalle, che ha cambiato numerose famiglie affidatarie, ci si aspetta di tutto per attirare un po’ l’attenzione, e il dubbio morde silenzioso l’orecchio di chi la conosce. Incredibile, perché è complicato aprire un’indagine senza avere prove effettive, senza che nessuno abbia visto nulla, è più semplice chiudere il caso il prima possibile. Incredibile, perché uno stupro è sempre difficile da accettare e ci sembra una realtà così lontana da noi che non la percepiamo come possibile finché non la proviamo o non conosciamo persone che ci sono andate vicine.




Incredibile, unbelievable, è il titolo della miniserie Netflix scritta, diretta e prodotta da Sussanah Grant, basata su fatti realmente accaduti. L’avevo addocchiata qualche giorno fa, salvo poi ritrovarmela consigliata in un gruppo Facebook di cui faccio parte, l’ho iniziata e finita nell’arco di una giornata e credo me la riguarderò al più presto per evidenziarne i più piccoli dettagli.

Non c’è un personaggio principale, ci sono tante figure che compaiono e scompaiono, le cui vite si intrecciano inevitabilmente in una fitta rete che attraversa l’intero Colorado e si estende ad altri stati americani. 
È stata definita da alcuni una serie tv femminista, io toglierei questo aggettivo che sta diventando sempre di più un’etichetta, lascerei solo serie tv e consiglierei la visione a un pubblico più ampio possibile, perché la realtà dei giorni nostri pullula di situazioni simili, e di donne che non denunciano o non sono credute sentiamo spesso le storie. 




Marie Adler (Kaitlyn Dever) ha diciotto anni, vive in una comunità per ragazzi che escono dal giro degli affidi e una notte viene stuprata da un misterioso uomo mascherato entrato dalla porta finestra della sua camera che l’ha legata e minacciata scattando poi alcune
foto. Rimane sconvolta ma non reagisce come gli altri si aspetterebbero, cerca di comportarsi come se nulla fosse successo,
va al lavoro come sempre, ma qualcosa in
lei si è rotto, anche se non in maniera evidente lo si può leggere nei suoi sguardi impauriti, nell’ansia di ogni piccolo rumore, nel non voler parlare di quella notte nonostante la si continui a sognare in loop. Tuttavia due delle ex madri affidatarie, quelle a cui Marie è più legata, cominciano ad avere il sospetto che la ragazza possa essersi inventata tutto e favoriscono il detective che decide di chiudere la vicenda senza troppi indugi. 
Marie viene archiviata con un’accusa di falsa testimonianza a suo carico, una multa di 500$ da pagare, la libertà vigilata da rispettare e il peso di sapere di aver detto la verità ma di essersi auto-convinta di aver mentito. La storia di Marie è incredibile e lei non viene creduta nemmeno da coloro che le sono più vicini, anzi, viene additata come bugiarda e dovrà subire le conseguenze di questa condizione.

A distanza di anni, in Colorado, in due contee distinte, le detective Karen Duvall (Merrit Wever) e Grace Rasmussen (Toni Collette) vengono incaricate di due casi di aggressione sessuale molto simili tra loro, anzi pressoché identici. Non fosse che una vittima è giovane e bianca e l’altra anziana e nera si direbbe che potrebbe essere la medesima scena. Per puro caso riescono ad entrare in contatto l’una con l’altra e, mettendo insieme una squadra di collaboratori, decidono di lavorare al fine di incastrare quello che si sta dimostrando sempre di più uno stupratore seriale. Entrambe, con le sfumature di carattere che le rendono diverse, spiccano non solo per qualità lavorative, ma per doti empatiche. Sarà che forse ci sentiamo più coinvolte dal nostro punto di vista rispetto ai colleghi maschietti? O forse, sono il peso delle esperienze passate e delle conseguenze delle nostre azioni a spingerci a dare il meglio per non lasciare che il silenzio si prenda nuovamente la vita di qualcuno?
La mappa si infittisce, compaiono sempre più nomi, sempre più luoghi e dettagli utili, più piste aperte da poter seguire, più storie da indagare.
Pongono l’accento sulle scene del crimine, immacolate, sull’attenzione che l’aggressore riserva all’occultamento delle prove, nel far lavare le vittime per cancellare eventuale DNA, nella meticolosa scelta di non ripetere mai più di una aggressione nello stesso distretto, come se conoscesse molto bene le procedure d’indagine e le mancanze di comunicazione del sistema. Per questo motivo balena loro in mente l’idea che il possibile colpevole sia un poliziotto che gode di informazioni accurate e anche di una certa omertà protettiva all’interno del suo ambiente. Perché si sa, purtroppo, che non si tratta di fantascienza, ma di cose che accadono.

Incredibile diventa anche l’accusa, per niente velata, alla corruzione del sistema di polizia americano, ma che ognuno di noi può riportare nel proprio paese, dove atti di violenza, domestica e non, stupri e aggressioni ad opera di poliziotti e membri dell’arma, vengono sotterrate dagli stessi colleghi e risolte con un trasferimento da una centrale all’altra. 

Terminato l’ottavo episodio ciò che mi ha invaso è stato un senso di tristezza e rabbia e un po’ di timore che possa succedere lo stesso anche a me e che, a mia volta, io non venga creduta. Per questo motivo consiglio la visione a chiunque voglia vederla, c’è bisogno di portare alla luce una realtà sempre più frequente, soprattutto negli ultimi anni, qui in Italia, dove sono notizie quasi all’ordine del giorno. Non devono rimanere notizie che nascono e muoiono in una pagina di quotidiano, dobbiamo ricordarci che si tratta di persone, e c’è bisogno, per poter agire davvero, che queste storie siano portate alla luce e raccontate. 
E ci vuole un sistema che agisca a dovere in caso di denunce di violenza, e che prenda provvedimenti contro chiunque abbia comportamenti aggressivi e violenti, donna o uomo che sia. La violenza contro chiunque andrebbe condannata e smascherata, ma per farlo bisogna essere educati al rispetto degli altri e per sé, alla tempestività delle azioni di allontanamento che in alcuni casi determinano la vita o la morte. Occorre un protocollo che non rimandi.
Unbelievable è incredibile perché rispecchia la nostra società e dà fastidio, ci spinge a non credere che sia così, fa male, ma è giusto che lasci in noi questo sentimento perché è necessario per cambiare le cose.

“La tenebra non può scacciare la tenebra: solo la luce può farlo. L’odio non può scacciare l’odio: solo l’amore può farlo. L’odio moltiplica l’odio, la violenza moltiplica la violenza, la durezza moltiplica la durezza, in una spirale discendente di distruzione.”
(Martin Luther King)