giovedì 27 giugno 2019

Arrivederci Ponte Morandi...

E così, Ponte Morandi, te ne andrai domani, in pochi secondi, tu che in questi mesi sei stato protagonista quasi quotidiano di televisioni, giornali, bocche. 
Te ne andrai velocemente in una giornata di inizio estate, che si prospetta afosa e torrida come queste ultime giornate bollenti di giugno, te ne andrai in una giornata di sole, tu che sei caduto con la pioggia battente del 14 di agosto. 

Eri il ponte di Genova, ma alcuni genovesi, la sottoscritta in primis, forse per mia ignoranza, forse per poca esperienza di vita, non sapeva che ti chiamassi ponte Morandi fino a quando sei crollato. Credo che ogni genovese abbia i suoi ricordi legati a te, e spesso dopo il tuo crollo, ce li siamo raccontati a vicenda, probabilmente era il nostro modo per alleviare la ferita, un mantra silenzioso, il nostro voler mantenere un ricordo felice dei tuoi monconi e delle tue strade interrotte. Eravamo gente che ti abitava vicino, chi ti vedeva dalla finestra o dal terrazzo, e chi dall’alto di Belvedere. Sembravi sempre così imponente e vicino, anche a chilometri di distanza. 

Per me eri il ponte che si faceva tutti gli anni per andare al mare, eri il simbolo dell’inizio della mia estate. Si imboccava il casello, pochi metri e ti si guardava da lontano, ti si attraversava veloci, cantando magari una canzone. Anche l’ultima volta che ci siamo “toccati” c’era aria di allegria e rumore, voglia irrefrenabile di partire. Poi incredibilmente silenzio.

Tanto silenzio. Ma un silenzio potente, carico di preoccupazione, di chiamate, di lacrime non piante. 

“E’ crollato il ponte Morandi, quello sul Polcevera” ricordo queste esatte parole, dette con incredulità in una calda mattina di metà agosto. Io sono in Corsica, lontana da casa, sono in vacanza con amici, mi sto divertendo, sono pure andata a ballare la sera prima, sono felice. Ma qualcosa si spezza. Anche a chilometri di distanza sento la paura avanzare. So che la mia famiglia non è a Genova, ma gli amici chi lo sa.I nonni dovrebbero forse tornare dalla campagna proprio in questi giorni. Siamo di quelle zone, per noi non era una strada che si faceva una tantum, sia sopra che sotto, volenti o nolenti ci si passa più volte al giorno. Comincio a chiamare, mi formicolano le mani, gli altri fanno lo stesso. Silenzio. Tutta l’allegria della sera sfumata.

Chi teme per il papà che lavora in zona.
Chi per la mamma che ci passa tutte le mattine.
Chi per gli amici.
Chi semplicemente ha bisogno di seguire la vicenda.

È successo tutto così in fretta, poche ore ed era sulla bocca di tutti. Così come finirà tutto, poche ore e sarai sulla bocca di tutti, ancora una volta. Ma soprattutto sarai il riflesso dei nostri occhi che ti seguiranno ti vedranno implodere velati di un’emozione che è difficile spiegare a parole.

Da quel momento l’intera vita di Genova è stata cambiata. Ma noi ci si abitua in fretta, si cerca di alleviare la sofferenza e di non pensare troppo ai danni prodotti anche se difficile chiudere gli occhi davanti ad una simile tragedia, soprattutto quando la rabbia per ciò che forse si poteva fare ti invade.
Ma si sono costruite strade alternative, ricordo gli ingorghi e le code infinite la mattina presto, le guardavo veloce dal treno mentre andavo in università e pensavo. Un ponte che crolla spezza qualcosa dentro, ma non è la caduta in sé, è il gesto. 
Un ponte, tu, ponte Morandi, non eri progettato per durare all’infinito, eri una grande idea, un’innovazione mai vista, il Ponte di Brooklyn che a Genova era invidiato, ma eri opera di uomini, e come tale avevi bisogno di cura e manutenzione, e noi ce ne siamo dimenticati, o abbiamo preferito ignorare, convinti che saresti resistito a qualsiasi carico e a qualsiasi evenienza.

Ponte Morandi, ti avessimo “curato” prima, quando ce n’era bisogno, forse non avremmo avuto vite spezzate, ricordi segnati dalla tristezza, case bagnate di lacrime d’addio. E forse oggi non ti dovremmo vedere andare via per sempre, circondato da pensieri pesanti e grandi speranze per il futuro che sembra lontano, ma sarà più vicino di quanto pensiamo.






venerdì 21 giugno 2019

Perché non serve solo essere "brave persone"

Recentemente mi è capitato di vedere una delle ultime puntate di “Otto e mezzo”, programma quotidiano di politica e approfondimento giornalistico condotto da Lilli Gruber, quest’ultima, agguerrita e sempre pronta a smuovere i vari ospiti, incalza Alessandro Di Battista, uno degli esponenti più importanti e noti del Movimento 5 Stelle che, invitato nella trasmissione, coglieva l’occasione per promuovere il suo nuovo libro “Politicamente Scorretto” in cui non risparmia critiche al panorama politico italiano, inclusi i suoi stessi compagni.

Ciò che più mi ha colpito dell’intera intervista, dove tra gli ospiti figura anche Alessandro De Angelis de “L’Huffington Post”, è la grande retorica messa in atto. Retorica che sembra essere sempre di più una delle caratteristiche fondamentali che accompagna ad ogni livello la politica. Ed è così da tempi antichissimi, basti pensare ai sofisti, maestri in questa disciplina, che molto spesso veniva usata per fini politici. 
Tuttavia, calata ai giorni nostri, sembra quasi che più uno si sa “vendere bene” a parole, più attacca sul terreno fertile dell’elettorato che, spesso e volentieri, e aggiungerei in molti casi giustamente, vorrebbe che le decisioni, le leggi, il mondo parlamentare e politico si esprimesse in modo più chiaro e leggibile. A proposito di questo concetto mi viene in mente una frase del film satirico di  Riccardo Milani con Claudio Bisio, “Benvenuto Presidente”, dove lui, nominato accidentalmente Presidente della Repubblica, si trova costretto a svolgere la burocrazia connessa al suo ruolo, ma studiando le leggi e non trovandole comprensibili decide di non firmarne nessuna fino a quando non saranno facilmente leggibili da un qualunque cittadino, procurandosi la standing ovation dell’intero pubblico che gli si era radunato intorno:

Mio nonno mi ha sempre detto 'Peppino, se non capisci una cosa, non firmare!' Anche perché le leggi le hanno fatte per noi, ma se non le capiamo come facciamo a rispettarle? Anzi, sai cosa faccio io? Finché non trovo una legge chiara io non firmo una legge!
[Benvenuto Presidente, 2013]

In questo modo però si rischia di cadere nella falsa retorica di coloro che si vogliono mostrarsi semplici nel linguaggio ma che, nel parlare e parlare, o non dicono nulla di concreto o manipolano ciò che dicono in proprio favore, e se una persona non riesce a cogliere criticamente il messaggio, finisce in un circolo vizioso di disinformazione che si autoalimenta. 

Ritornando all’intervista di partenza, c’è un altro aspetto importante che sottolinea anche la scelta del mio titolo. Ad un certo punto la Gruber sprona Di Battista a considerare l’oggettiva perdita di voti dei 5 Stelle alle Elezioni Europee 2019 ottenendo come risposta un’affermazione che tende a sottolineare, a mio parere, l’instabilità del Movimento. Di Battista afferma che sia vero che loro le strategie parlamentari e alcune cose riguardanti il mondo della politica non le sappiano fare, ma tende a considerare queste mancanze come il frutto del loro giovane percorso al governo, aggiungendo poi che i membri del Movimenti si propongono “nella vasca di squali della politica italiana…” come “…brave persone che si sono rinchiuse nei Ministeri tentando di risolvere una serie di problemi”
A questo punto Lili Gruber lo pone di fronte alla realtà dei fatti pronunciando queste testuali parole: "Lei non mi può dipingere i rappresentanti del suo partito come delle brave persone che sono un po' come 'Alice nel paese delle meraviglie': se siete così non vi candidate a governare. Studiate prima, poi forse andate al governo”.

Credo che sia importante concentrarsi proprio su quest’affermazione che, sempre secondo il mio parere, non voleva essere una semplice critica, ma un invito e un’osservazione fondamentale che riassume un concetto molto importante, ovvero che per raggiungere diverse posizioni, per ricoprire certi ruoli e, soprattutto, per amministrare uno stato con milioni di cittadini, bisogna essere competenti e preparati e non basti essere brave persone. 
Non è un discorso che vuole essere discriminatorio o classista, è qualcosa che secondo me dovrebbe essere giusto, per il bene di tutti, del paese in primis: io posso essere la migliore delle persone in terra, ma se non sono in grado di fare una determinata cosa non mi propongo per farla, o se mi voglio davvero proporre e non sono preparato faccio di tutto pur di poterlo diventare, e questo implica studiare, approfondire, confrontarsi e spendere tempo e fatica per migliorare la propria conoscenza nel campo.

Questo concetto si applica perfettamente alla politica, ma potrebbe essere fatto a livello di occupazione normale: è brutto da dire, ma è vero, se uno ha le giuste carte in tavola ed è competente, arriva dove vuole arrivare, poi sicuramente incide anche la fortuna, ma è una percentuale molto bassa. 
Mi viene in mente un intervento fatto al Tedx Bologna 2015 da Marcello Mancini, imprenditore ed esperto di formazione, che sottolineava l’importanza di questo paradigma: “O ti formi o ti fermi”. 

È troppo facile reclamare tutto solo perché si è brave persone. Non sto affatto sostenendo la tesi di cui alcuni si fanno paladini secondo la quale chi studia, chi fa l’università ha diritto di default a posizioni agevolate e di spicco, sostengo però una sorta di principio di giustizia che fa si che, chi davvero sa, raggiunga ciò per cui ha studiato e si è specializzato, non per grado accademico o “pezzi di carta”, anche, ma perché venga riconosciuto il merito a chi ce l’ha e non si appiattisca tutto. Perché sapere e ignoranza, a livello lavorativo soprattutto, non sono e non devono essere la stessa cosa, altrimenti si alimenta l’idea che non serva fare bene, non serva impegnarsi e studiare perché tanto si può arrivare lo stesso, tutti al pari di tutti, e si svilisce il merito di chi è altrettanto “bravo”, ma ha i numeri in più, e non si vede riconosciuta questa qualità a discapito di altri.





sabato 8 giugno 2019

When They See Us: la legge è davvero uguale per tutti?

Giugno 2019, piena sessione estiva, dovrei pensare a preparare gli esami che mi rimangono per tenermi l’estate più libera possibile, ma poi spunta lui, il simpatico signor Netflix, che mi offre su un piatto d’argento una delle serie che più ho apprezzato quest’anno. When they see us. 
Così, in fretta e furia, consigliata anche da una mia amica, decido di cominciarla e nel giro di due giorni, seppure a fatica, me la divoro.

When they see us miniserie in 4 episodi, ideata e diretta da Ava DuVernay, prodotta e distribuita da Netflix nel maggio 2019 racconta le vicende reali di un gruppo di 5 ragazzi che si ritrovano ingiustamente immischiati in un caso di stupro avvenuto a Central Park nel 1989.
Il caso di cronaca lo si può trovare online e riguarda una giovane Jogger bianca, Trisha Meili, ritrovata in fin di vita dopo un violento attacco fisico. La serie analizza l’andamento del processo e delle indagini proponendoci una visione introspettiva dei 5 punti di vista principali.

È una sera come tante altre a New York, e un gruppo di ragazzi appartenenti al quartiere di Est Harlem si ritrova a Central Park per stare insieme, tra di loro Kevin Richardson, Antron “Tron” McCray, Yusef Salaam, Raymond Santana jr e Korey Wise. Come spesso succede però, ci sono individui più esagitati, atri più tranquilli, giovani di età diversa, qualcuno molto piccolo, e per farsi vedere alcuni cominciano ad infastidire ciclisti provocando un po’ di disordini, tanto che la polizia decide di intervenire, fermando e arrestando alcuni tra i ragazzi presenti, in particolare i cinque succitati che vengono portati al distretto dove sono tenuti svegli tutta la notte. Contemporaneamente alla retata, viene trovato il corpo di una giovane donna nella parte nord del parco, partono le indagini e il procuratore che si occupa del caso, Linda Fairstein, pensa che i ragazzi possano essere testimoni dei fatti avvenuti quella notte salvo poi assumere definitivamente l’idea che dovessero essere stati proprio loro a compiere l’assalto e lo stupro della Jogger. E così, nella sua totale (in)sicurezza dei fatti, dopo un interrogatorio ininterrotto durato più di 40 ore, senza avvocati né genitori, e i ragazzi quell’epoca avevano tutti tra i 14 e i 16 anni, estorce loro confessioni inventate, registrandole per usarle al processo dove l’avvocato dell’accusa, Elizabeth Lederer, fa condannare i cinque al massimo delle pene previste che sconteranno tutti in riformatorio, ad eccezione di Korey Wise, unico sedicenne, che sarà costretto al carcere per adulti subendo violenze e maltrattamenti da parte dei detenuti. Soltanto nel 2002 il vero responsabile del crimine decide di confessare e i cinque vengono dichiarati innocenti e ripagati per le ingiustizie subite.

Fino a qui potremmo considerare questo caso come l’ennesimo verdetto che incastra innocenti e scagiona i responsabili veri e propri, ma c’è una caratteristica fondamentale che non può essere trascurata e che è alla base dell’intera vicenda, la pelle, o meglio, il colore della pelle e l’etnia di provenienza dei 5 ragazzi. 




Afroamericani, ispanici, neri. 

Combo eccezionale per affrettare una sentenza senza prove sufficienti, senza che ci sia una corrispondenza reale tra i campioni disponibili, senza ammettere che le verità pronunciate dalle bocche dei giovani di vero hanno ben poco, solo i segni delle botte ricevute in centrale e la paura negli occhi per un destino che non si conosce.
Ma possibile che nessuno di coloro che si era occupato del caso si fosse accorto che non era andato proprio così?
Non erano servite le ricostruzioni sbagliate, le presunte zone di Central Park, descritte come luogo dell’assalto dai ragazzi, che erano a centinaia di metri di distanza dal punto preciso, le continue contraddizioni di persone che non si conoscevano nemmeno tra di loro, perché quesi giovani non si conoscevano salvo qualche eccezione.

No. A niente è servito questo. A niente è servita la verità.
Perché se un paese ti educa a guardare in un certo modo le persone, se ti fa passare come normale che siano loro, “quella gente”, a commettere omicidi, stupri e aggressioni, se un paese preferisce chiudere il caso in fretta e furia senza ulteriori accertamenti, sei portato a crederlo, e puoi raccontartela quanto vuoi, puoi sbandierare che sei democratico e difensore dei diritti, ma sarai solo un ipocrita. 
Tra le altre cose, compare anche un ben più giovane Donald Trump, fiero paladino e portavoce di coloro che avrebbero voluto ri-istituire la pena di morte nello stato di New York per criminali come i “cinque di Cental Park”, peccato che molto spesso la tanto desiderata pena di morte, che qualcuno vorrebbe riportare anche in Italia, mieta solo vittime innocenti e non allevi la sofferenza della vittima iniziale. Ma chissà se mai riusciremo a capire che occhio per occhio, dente per dente, non è una buona forma di civiltà.



When they see us sbatte in faccia la cruda realtà contemporanea ancora ai giorni nostri, il dolore di quei ragazzi che mai avevano infranto la legge e, si presuppone data la giovane età, non avessero mai toccato una donna in vita loro, lo strazio di famiglie ridotte all’osso solo per dimostrare la loro innocenza e per rivendicare a gran voce la fine di una guerra invisibile che serpeggia nei confronti di chi non è standard, di chi è diverso. 

L’intolleranza e la voglia di segregazione razziale inaspriscono il sistema giudiziario che dovrebbe essere quantomeno imparziale, oggettivo, concerto e onesto. La legge è uguale per tutti? Sì, certamente, ma forse, per citare George Orwell, “Gli animali sono tutti uguali. Ma alcuni sono più uguali di altri”.

Questa serie mi ha ricordato molto le vicende di Ruth Jefferson, protagonista del libro Piccole Grandi Cose, di cui un giorno forse parlerò, accusata ingiustamente per un crimine mai commesso soltanto perché nera e perché, per l’America delle mille contraddizioni, non può essere stato altro che così.



Imagine - John Lennon

domenica 2 giugno 2019

STYX(2018): restare umani nella tempesta è l'unica soluzione

Ci sono film che ti trafiggono alla prima visione, passano per la mente e raggiungono il nostro IO più intimo perché colpiscono la nostra umanità. Siamo uomini, donne, anziani, bambini, ma tutti quanti possiamo e dobbiamo essere umani.
Ma cosa vuol dire essere umani?
Vuol dire essere empatici e disponibili? Vuol dire mettere chi più in difficoltà prima rispetto a noi? Vuol dire non avere paura di perdere il lavoro? Vuol dire affrontare un ostacolo che sembra più grande e forte?
Essere umani significa tutto questo e molto di più.

Se ci trovassimo in mare aperto e avessimo sopportato una tempesta così violenta da farci temere per la nostra vita, avremmo il coraggio di salvare qualcun altro che ha patito la stessa tempesta ma la vita rischia di perderla sul serio?

In questo periodo storico si parla tanto, in Italia così come in Europa e altrove, di chiudere i porti, di preservare i nostri poveri, “pensiamo a loro per primi” dice qualcuno, evitando così di crearne di nuovi, come se quasi ci facessero schifo queste persone che per volontà di cose sono costrette a partire. Ma saremmo davvero in grado di voltare così facilmente le spalle alla nostra umanità?
Credo che in una situazione limite del genere anche la persona più insensibile si cruccerebbe sul da farsi perché il suo intervento o meno può determinare la vita o la morte di centinaia di persone, una sorta di Ponzio Pilato del 2000. Come faccio io a non pensare alle conseguenze del mio NO?

È vero la barca a vela è piccola, sono un medico, sono attrezzata ma sono sola e sto cercando in tutti i modi di contattare chi di dovere per farmi dare una mano perché è umanamente difficile restare a 150 metri a guardare un peschereccio naufragare lentamente. Ed è ancora più terribile sentire le urla delle persone e poter immaginare i loro occhi, vuoti e disperati, riflessi in quelli dell’unico bimbo cui ho prestato soccorso che mi aggredisce chiedendomi risposte e parole che non ho.
Come si fa a far finta di niente?
Non è facendo morire la gente in mare che risolvo un’emergenza reale, SALVARLI è da umani, salvarli vuol dire non lasciarli affogare in mare stipati gli uni sugli altri, ustionati, stremati e distrutti.
Salvarli non vuol dire per forza accoglierli. Si può essere d’accordo o meno sull’accoglienza, e sono la prima a credere che sia necessario un cambiamento per quanto riguarda l’integrazione e l’accoglienza perché il lavoro che stiamo facendo ora non è abbastanza e per farlo ci vorrebbe la collaborazione di tutti, ma salvarli dovrebbe essere imprescindibile proprio perché siamo umani e dobbiamo restare umani anche davanti alle difficoltà. 
Non è questione di consensi o voti, di partiti destri e sinistri, è questione di mettere la mia vita su un barcone come quella di un altro e di considerare me fortunata ma non una privilegiata che si deve mantenere lontana da tutti e tutto.

STYX è una storia umana, una storia che può succedere ad ognuno di noi. Per la regia di Wolfgang Fischer e l’interpretazione di Susanne Wolff  e Gedion Wekesa Oduor nei panni della dottoressa Rieke e del bimbo Kingsley, presentato al 68° festival internazionale del cinema di Berlino, è un film nudo e crudo nella sua rappresentazione dei fatti che non risparmia nessuno.


Susanne Wolff, in una scena dove cerca contatti con la Guardia Costiera pronuncia questa frase molto potente: 

“Ho capito. Ma non me ne vado”

Questa semplice affermazione è di fatti la chiave dell’aiuto reciproco, nonostante ci venga ordinato di non intervenire, di allontanarci, si cerca in qualche modo di restare anche solo a sorvegliare che la situazione non peggiori. Vegliamo sulla vita di qualcun altro per aiutare anche la nostra.

Ho detto all’inizio, riferendomi a questo film, che alcune pellicole trafiggono, lo fanno perché ti fanno sentire impotente o ti lasciano la sensazione di non stare facendo abbastanza per migliorare la situazione e ti indeboliscono perché creano una connessione tra me, spettatore, e loro interpreti, ma in senso lato creano un legame tra me e chi è realmente in quella condizione.
È un circolo vizioso alimentato da quel sentimento che spesso ci dimentichiamo di avere, l’empatia, che fa si che noi possiamo provare a vivere da umani e non da bestie. 

L’empatia fa si che non siamo portati ad occuparci solo del nostro orticello per paura di perdere anche quello; a volte abbiamo bisogno di aprire gli occhi e uscire dal nostro recinto sicuro per comprendere che non siamo soli al mondo e che si può restare umani in ogni situazione.



🎵 Apriti cielo di Mananrino