E così, Ponte Morandi, te ne andrai domani, in pochi secondi, tu che in questi mesi sei stato protagonista quasi quotidiano di televisioni, giornali, bocche.
Te ne andrai velocemente in una giornata di inizio estate, che si prospetta afosa e torrida come queste ultime giornate bollenti di giugno, te ne andrai in una giornata di sole, tu che sei caduto con la pioggia battente del 14 di agosto.
Eri il ponte di Genova, ma alcuni genovesi, la sottoscritta in primis, forse per mia ignoranza, forse per poca esperienza di vita, non sapeva che ti chiamassi ponte Morandi fino a quando sei crollato. Credo che ogni genovese abbia i suoi ricordi legati a te, e spesso dopo il tuo crollo, ce li siamo raccontati a vicenda, probabilmente era il nostro modo per alleviare la ferita, un mantra silenzioso, il nostro voler mantenere un ricordo felice dei tuoi monconi e delle tue strade interrotte. Eravamo gente che ti abitava vicino, chi ti vedeva dalla finestra o dal terrazzo, e chi dall’alto di Belvedere. Sembravi sempre così imponente e vicino, anche a chilometri di distanza.
Per me eri il ponte che si faceva tutti gli anni per andare al mare, eri il simbolo dell’inizio della mia estate. Si imboccava il casello, pochi metri e ti si guardava da lontano, ti si attraversava veloci, cantando magari una canzone. Anche l’ultima volta che ci siamo “toccati” c’era aria di allegria e rumore, voglia irrefrenabile di partire. Poi incredibilmente silenzio.
Tanto silenzio. Ma un silenzio potente, carico di preoccupazione, di chiamate, di lacrime non piante.
“E’ crollato il ponte Morandi, quello sul Polcevera” ricordo queste esatte parole, dette con incredulità in una calda mattina di metà agosto. Io sono in Corsica, lontana da casa, sono in vacanza con amici, mi sto divertendo, sono pure andata a ballare la sera prima, sono felice. Ma qualcosa si spezza. Anche a chilometri di distanza sento la paura avanzare. So che la mia famiglia non è a Genova, ma gli amici chi lo sa.I nonni dovrebbero forse tornare dalla campagna proprio in questi giorni. Siamo di quelle zone, per noi non era una strada che si faceva una tantum, sia sopra che sotto, volenti o nolenti ci si passa più volte al giorno. Comincio a chiamare, mi formicolano le mani, gli altri fanno lo stesso. Silenzio. Tutta l’allegria della sera sfumata.
Chi teme per il papà che lavora in zona.
Chi per la mamma che ci passa tutte le mattine.
Chi per gli amici.
Chi semplicemente ha bisogno di seguire la vicenda.
È successo tutto così in fretta, poche ore ed era sulla bocca di tutti. Così come finirà tutto, poche ore e sarai sulla bocca di tutti, ancora una volta. Ma soprattutto sarai il riflesso dei nostri occhi che ti seguiranno ti vedranno implodere velati di un’emozione che è difficile spiegare a parole.
Da quel momento l’intera vita di Genova è stata cambiata. Ma noi ci si abitua in fretta, si cerca di alleviare la sofferenza e di non pensare troppo ai danni prodotti anche se difficile chiudere gli occhi davanti ad una simile tragedia, soprattutto quando la rabbia per ciò che forse si poteva fare ti invade.
Ma si sono costruite strade alternative, ricordo gli ingorghi e le code infinite la mattina presto, le guardavo veloce dal treno mentre andavo in università e pensavo. Un ponte che crolla spezza qualcosa dentro, ma non è la caduta in sé, è il gesto.
Un ponte, tu, ponte Morandi, non eri progettato per durare all’infinito, eri una grande idea, un’innovazione mai vista, il Ponte di Brooklyn che a Genova era invidiato, ma eri opera di uomini, e come tale avevi bisogno di cura e manutenzione, e noi ce ne siamo dimenticati, o abbiamo preferito ignorare, convinti che saresti resistito a qualsiasi carico e a qualsiasi evenienza.
Ponte Morandi, ti avessimo “curato” prima, quando ce n’era bisogno, forse non avremmo avuto vite spezzate, ricordi segnati dalla tristezza, case bagnate di lacrime d’addio. E forse oggi non ti dovremmo vedere andare via per sempre, circondato da pensieri pesanti e grandi speranze per il futuro che sembra lontano, ma sarà più vicino di quanto pensiamo.
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