sabato 8 giugno 2019

When They See Us: la legge è davvero uguale per tutti?

Giugno 2019, piena sessione estiva, dovrei pensare a preparare gli esami che mi rimangono per tenermi l’estate più libera possibile, ma poi spunta lui, il simpatico signor Netflix, che mi offre su un piatto d’argento una delle serie che più ho apprezzato quest’anno. When they see us. 
Così, in fretta e furia, consigliata anche da una mia amica, decido di cominciarla e nel giro di due giorni, seppure a fatica, me la divoro.

When they see us miniserie in 4 episodi, ideata e diretta da Ava DuVernay, prodotta e distribuita da Netflix nel maggio 2019 racconta le vicende reali di un gruppo di 5 ragazzi che si ritrovano ingiustamente immischiati in un caso di stupro avvenuto a Central Park nel 1989.
Il caso di cronaca lo si può trovare online e riguarda una giovane Jogger bianca, Trisha Meili, ritrovata in fin di vita dopo un violento attacco fisico. La serie analizza l’andamento del processo e delle indagini proponendoci una visione introspettiva dei 5 punti di vista principali.

È una sera come tante altre a New York, e un gruppo di ragazzi appartenenti al quartiere di Est Harlem si ritrova a Central Park per stare insieme, tra di loro Kevin Richardson, Antron “Tron” McCray, Yusef Salaam, Raymond Santana jr e Korey Wise. Come spesso succede però, ci sono individui più esagitati, atri più tranquilli, giovani di età diversa, qualcuno molto piccolo, e per farsi vedere alcuni cominciano ad infastidire ciclisti provocando un po’ di disordini, tanto che la polizia decide di intervenire, fermando e arrestando alcuni tra i ragazzi presenti, in particolare i cinque succitati che vengono portati al distretto dove sono tenuti svegli tutta la notte. Contemporaneamente alla retata, viene trovato il corpo di una giovane donna nella parte nord del parco, partono le indagini e il procuratore che si occupa del caso, Linda Fairstein, pensa che i ragazzi possano essere testimoni dei fatti avvenuti quella notte salvo poi assumere definitivamente l’idea che dovessero essere stati proprio loro a compiere l’assalto e lo stupro della Jogger. E così, nella sua totale (in)sicurezza dei fatti, dopo un interrogatorio ininterrotto durato più di 40 ore, senza avvocati né genitori, e i ragazzi quell’epoca avevano tutti tra i 14 e i 16 anni, estorce loro confessioni inventate, registrandole per usarle al processo dove l’avvocato dell’accusa, Elizabeth Lederer, fa condannare i cinque al massimo delle pene previste che sconteranno tutti in riformatorio, ad eccezione di Korey Wise, unico sedicenne, che sarà costretto al carcere per adulti subendo violenze e maltrattamenti da parte dei detenuti. Soltanto nel 2002 il vero responsabile del crimine decide di confessare e i cinque vengono dichiarati innocenti e ripagati per le ingiustizie subite.

Fino a qui potremmo considerare questo caso come l’ennesimo verdetto che incastra innocenti e scagiona i responsabili veri e propri, ma c’è una caratteristica fondamentale che non può essere trascurata e che è alla base dell’intera vicenda, la pelle, o meglio, il colore della pelle e l’etnia di provenienza dei 5 ragazzi. 




Afroamericani, ispanici, neri. 

Combo eccezionale per affrettare una sentenza senza prove sufficienti, senza che ci sia una corrispondenza reale tra i campioni disponibili, senza ammettere che le verità pronunciate dalle bocche dei giovani di vero hanno ben poco, solo i segni delle botte ricevute in centrale e la paura negli occhi per un destino che non si conosce.
Ma possibile che nessuno di coloro che si era occupato del caso si fosse accorto che non era andato proprio così?
Non erano servite le ricostruzioni sbagliate, le presunte zone di Central Park, descritte come luogo dell’assalto dai ragazzi, che erano a centinaia di metri di distanza dal punto preciso, le continue contraddizioni di persone che non si conoscevano nemmeno tra di loro, perché quesi giovani non si conoscevano salvo qualche eccezione.

No. A niente è servito questo. A niente è servita la verità.
Perché se un paese ti educa a guardare in un certo modo le persone, se ti fa passare come normale che siano loro, “quella gente”, a commettere omicidi, stupri e aggressioni, se un paese preferisce chiudere il caso in fretta e furia senza ulteriori accertamenti, sei portato a crederlo, e puoi raccontartela quanto vuoi, puoi sbandierare che sei democratico e difensore dei diritti, ma sarai solo un ipocrita. 
Tra le altre cose, compare anche un ben più giovane Donald Trump, fiero paladino e portavoce di coloro che avrebbero voluto ri-istituire la pena di morte nello stato di New York per criminali come i “cinque di Cental Park”, peccato che molto spesso la tanto desiderata pena di morte, che qualcuno vorrebbe riportare anche in Italia, mieta solo vittime innocenti e non allevi la sofferenza della vittima iniziale. Ma chissà se mai riusciremo a capire che occhio per occhio, dente per dente, non è una buona forma di civiltà.



When they see us sbatte in faccia la cruda realtà contemporanea ancora ai giorni nostri, il dolore di quei ragazzi che mai avevano infranto la legge e, si presuppone data la giovane età, non avessero mai toccato una donna in vita loro, lo strazio di famiglie ridotte all’osso solo per dimostrare la loro innocenza e per rivendicare a gran voce la fine di una guerra invisibile che serpeggia nei confronti di chi non è standard, di chi è diverso. 

L’intolleranza e la voglia di segregazione razziale inaspriscono il sistema giudiziario che dovrebbe essere quantomeno imparziale, oggettivo, concerto e onesto. La legge è uguale per tutti? Sì, certamente, ma forse, per citare George Orwell, “Gli animali sono tutti uguali. Ma alcuni sono più uguali di altri”.

Questa serie mi ha ricordato molto le vicende di Ruth Jefferson, protagonista del libro Piccole Grandi Cose, di cui un giorno forse parlerò, accusata ingiustamente per un crimine mai commesso soltanto perché nera e perché, per l’America delle mille contraddizioni, non può essere stato altro che così.



Imagine - John Lennon

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