Ci sono film che ti trafiggono alla prima visione, passano per la mente e raggiungono il nostro IO più intimo perché colpiscono la nostra umanità. Siamo uomini, donne, anziani, bambini, ma tutti quanti possiamo e dobbiamo essere umani.
Ma cosa vuol dire essere umani?
Vuol dire essere empatici e disponibili? Vuol dire mettere chi più in difficoltà prima rispetto a noi? Vuol dire non avere paura di perdere il lavoro? Vuol dire affrontare un ostacolo che sembra più grande e forte?
Essere umani significa tutto questo e molto di più.
Se ci trovassimo in mare aperto e avessimo sopportato una tempesta così violenta da farci temere per la nostra vita, avremmo il coraggio di salvare qualcun altro che ha patito la stessa tempesta ma la vita rischia di perderla sul serio?
In questo periodo storico si parla tanto, in Italia così come in Europa e altrove, di chiudere i porti, di preservare i nostri poveri, “pensiamo a loro per primi” dice qualcuno, evitando così di crearne di nuovi, come se quasi ci facessero schifo queste persone che per volontà di cose sono costrette a partire. Ma saremmo davvero in grado di voltare così facilmente le spalle alla nostra umanità?
Credo che in una situazione limite del genere anche la persona più insensibile si cruccerebbe sul da farsi perché il suo intervento o meno può determinare la vita o la morte di centinaia di persone, una sorta di Ponzio Pilato del 2000. Come faccio io a non pensare alle conseguenze del mio NO?
È vero la barca a vela è piccola, sono un medico, sono attrezzata ma sono sola e sto cercando in tutti i modi di contattare chi di dovere per farmi dare una mano perché è umanamente difficile restare a 150 metri a guardare un peschereccio naufragare lentamente. Ed è ancora più terribile sentire le urla delle persone e poter immaginare i loro occhi, vuoti e disperati, riflessi in quelli dell’unico bimbo cui ho prestato soccorso che mi aggredisce chiedendomi risposte e parole che non ho.
Come si fa a far finta di niente?
Non è facendo morire la gente in mare che risolvo un’emergenza reale, SALVARLI è da umani, salvarli vuol dire non lasciarli affogare in mare stipati gli uni sugli altri, ustionati, stremati e distrutti.
Salvarli non vuol dire per forza accoglierli. Si può essere d’accordo o meno sull’accoglienza, e sono la prima a credere che sia necessario un cambiamento per quanto riguarda l’integrazione e l’accoglienza perché il lavoro che stiamo facendo ora non è abbastanza e per farlo ci vorrebbe la collaborazione di tutti, ma salvarli dovrebbe essere imprescindibile proprio perché siamo umani e dobbiamo restare umani anche davanti alle difficoltà.
Non è questione di consensi o voti, di partiti destri e sinistri, è questione di mettere la mia vita su un barcone come quella di un altro e di considerare me fortunata ma non una privilegiata che si deve mantenere lontana da tutti e tutto.
STYX è una storia umana, una storia che può succedere ad ognuno di noi. Per la regia di Wolfgang Fischer e l’interpretazione di Susanne Wolff e Gedion Wekesa Oduor nei panni della dottoressa Rieke e del bimbo Kingsley, presentato al 68° festival internazionale del cinema di Berlino, è un film nudo e crudo nella sua rappresentazione dei fatti che non risparmia nessuno.
Susanne Wolff, in una scena dove cerca contatti con la Guardia Costiera pronuncia questa frase molto potente:
“Ho capito. Ma non me ne vado”
Questa semplice affermazione è di fatti la chiave dell’aiuto reciproco, nonostante ci venga ordinato di non intervenire, di allontanarci, si cerca in qualche modo di restare anche solo a sorvegliare che la situazione non peggiori. Vegliamo sulla vita di qualcun altro per aiutare anche la nostra.
Ho detto all’inizio, riferendomi a questo film, che alcune pellicole trafiggono, lo fanno perché ti fanno sentire impotente o ti lasciano la sensazione di non stare facendo abbastanza per migliorare la situazione e ti indeboliscono perché creano una connessione tra me, spettatore, e loro interpreti, ma in senso lato creano un legame tra me e chi è realmente in quella condizione.
È un circolo vizioso alimentato da quel sentimento che spesso ci dimentichiamo di avere, l’empatia, che fa si che noi possiamo provare a vivere da umani e non da bestie.
L’empatia fa si che non siamo portati ad occuparci solo del nostro orticello per paura di perdere anche quello; a volte abbiamo bisogno di aprire gli occhi e uscire dal nostro recinto sicuro per comprendere che non siamo soli al mondo e che si può restare umani in ogni situazione.
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