giovedì 14 novembre 2019

Siamo mica un po' tutti Ponzio Pilato?

Da quando siamo diventati così indifferenti a tutto quello che ci circonda? Che cosa ci ha fatto convincere che, a volte, sia necessario voltarsi dall’altra parte invece che prendere una posizione?

La verità, purtroppo e con un senso di magone che attanaglia gola e stomaco, è che ci stiamo riducendo ad essere tanti piccoli Ponzio Pilato, con una differenza bella grossa: non abbiamo lo spessore che questo personaggio portava con sé, la capacità di non condannare un uomo solo perché altri lo condannavano a priori, gonfiati da altri ancora che si presentavano come detentori della verità assoluta, incontestabili. Tuttavia, noi, continuiamo a lavarci le mani in qualsiasi situazione non ci coinvolga direttamente come vittime, costantemente in lotta tra il Barabba e il Gesù del momento, incapaci di distanziarci da ciò che ci viene proposto come accettabile. Stiamo perdendo la capacità di cogliere i segnali e attribuire il giusto peso alle cose, che non sono tutte uguali, e non lo devono essere.

“Se le vittime sono gli altri, cosa me ne frega a me? Cosa mi dovrebbe spingere a schierarmi? Perché limitare il pensiero del mio vicino di casa? E vabbè dai, era una battuta. Ridi!” 
Che belle stronzate.

Sono frasi che non dovrebbero neanche attraversarci la testa: dovremmo essere i primi, forti della memoria che ci è stata raccontata dai “grandi”, dai genitori, dai nonni, dai testimoni del tempo, a capire che aiutare l’altro in difficoltà, tendere la mano, confrontarsi con il diverso e cercare un dialogo che avvicini e non respinga, debba essere la strada giusta per non perderci. Prestando attenzione al fatto che accettare non significhi dover diventare uguali agli altri come qualcuno tende a farci credere, e che libertà significa diritti e che i diritti possono essere di tutti in egual misura senza ledere l’orgoglio vitale di ognuno di noi.
"My God is better than yours
And the walls of my house are so thick
I hear nothing at all"
Ma per farlo abbiamo bisogno di esistere e resistere come persone, entità singole in grado di vivere in società, pensare e dubitare che quello che ci viene proposto o che sentiamo in strada, in negozio, in casa, non sempre sia da prendere così com’è. Imparare dagli altri, riconoscere che la propria posizione, a volte, è solo vincolata ad un unico tipo di informazione, capire che ci si può conoscere e incontrare, per la prima volta, a tre anni, così come a dieci, a venti, a cinquanta e a ottantasei. E che ci si può stupire che le nostre idee, fino ad allora portate avanti, non erano altro che scudi che ci difendevano da qualcosa di lontano da noi, ma di esistente, vivo e pulsante che aveva bisogno di una spinta per entrare nella nostra vita, lasciandoci lo spazio per analizzare e trovare un nostro compromesso.
Bisogna tuttavia essere disposti a spogliarsi di pregiudizi, innocui o violenti, mettendo da un lato la “pancia” e rendendo disponibili la parola e la testa.

Non è solo il bimbo di colore attaccato sull’autobus, non sono gli sguardi che attraversano e scannerizzano ognuno di noi tutti i giorni, non è la disabilità, non sono i post su Facebook e i cori da stadio, non è l’astio di alcuni anziani verso i giovani né viceversa, non sono le prediche e i sermoni, non sono i giudizi, non sono i sorrisi ironici, e non è nemmeno l’indifferenza e l’incoerenza. 
Non sono queste cose, ma sono tutte queste cose, ad annullarci come individui e ad assimilarci a una massa informe, che si muove in una direzione sola, attaccando, a seconda del momento, questo o quello, facendosi paladina di una libertà di parola, espressione e pensiero, che dovrebbe considerare di fermarsi quando va ad offendere chiunque altro, in nome, se non della ragione e del rispetto, almeno del buonsenso.

Sono Cecilia, ho venti anni, sono una ragazza e sono genovese orgogliosa di esserlo, italiana per tutta la vita, europea perché un giorno spero di trovarvi la mia strada il mio futuro condividendolo con altri, “cittadina del mondo” perché sono umana e ne sono innamorata. Ho la mia testa e capita che mi ci scontri. Credo nell’uguaglianza e nel bisogno di essere curiosi ma vigili allo stesso tempo, e a volte, ho paura di essere anche io indifferente al mondo che mi circonda, per questo motivo ho bisogno di raccontarmi, leggere e vedere che esistono persone che si battono ogni giorno, su tutta la Terra perché tra trenta, quaranta, novant’anni, ci possano essere migliaia di altri come me.

Liberi, in pace, a cui la vita consente di poter scegliere, sperando di non dover mai presentarsi con delle scuse solo per il fatto di essere come si è.


"As the waves crash high
And the shoreline disappears
I will scream to the sky
"Hey, people live here."




La canzone di cui sono citate due strofe è People Live Here - Rise Against 
Il consiglio musicale per il post è Human - Rag'n'Bon Man









domenica 3 novembre 2019

Scary Stories To Tell In The Dark

Avete presente le storie dell’orrore che si raccontavano la notte, sfidando la paura dei rumori sospetti, illuminati solo dalla luce di una torcia?
Ecco, immagino che ognuno di noi ne abbia raccontato almeno una e ascoltate molte, sono tutte storie spaventose da raccontare al buio o meglio, Scary stories to tell in the Dark.

“Qualcuno crede che se ripetiamo tante volte le storie, esse diventino reali. Ci rendono ciò che siamo”

Ecco che l’orrore esce fuori dallo schermo del cinema per proiettarsi nella realtà di tutti i giorni, perché la paura spesso è più viva e reale di quanto immaginiamo.
Nella cittadina di Mill Valley, in Pennsylvania, è il 1968, e la sera di Halloween è alle porte così come le elezioni presidenziali che proiettano su tutti gli schermi il faccione di Nixon. Stella, Chuck e Auggie dopo aver sfidato a colpi di uova i bulletti del liceo, si ritrovano a scappare nel bosco in direzione di una casa abbandonata che si dice essere infestata e che un tempo era appartenuta alla famiglia dei Bellows. 
Un alone di mistero avvolge il nome di questa ricca discendenza, e la leggenda narra che una delle figlie, Sarah, internata e murata viva nell’oscurità del seminterrato, racconti storie dell’orrore ai bambini attraverso il muro e che questi, poco dopo, muoiano.
Ma quanta verità c’è dietro una voce metropolitana? E poi, non bisogna fare i fifoni e credere ai fantasmi, insomma, non esistono. 
Quanti di noi pensano che arrivati ad una certa età non si abbia più il diritto di avere paura dei mostri?
Se fosse così, ci sbagliamo.
Nella casa dei Bellows, Stella, ritrova il famoso libro di storie di Sarah, le parole scritte con il sangue sulle pagine ingiallite che sembrano avere il potere di attivare ciò che stanno raccontando.
“Raccontami una storia Sarah Bellows. Raccontami una storia Sarah Bellows.”
Perché le storie vivono, non sono confinate alla carta. E le storie compaiono quando meno ce lo aspettiamo e non sempre siamo in grado di fermarle.


Scary Stories To Tell In The Dark è il nuovo film di André Øvredal, regista di Troll Hunter, sceneggiato da Guillermo del Toro, dall’omonima serie di libri di Alvin Schwartz, e uscito nelle sale italiane il 24 ottobre 2019. 
È una storia di mostri: immaginari e figli della paura, quanto reali e figli del nostro tempo. Il clima di provincia evidenzia caratteri sociali quali la segregazione, il razzismo esplicito e crudele, il disprezzo, la guerra in Vietnam, temi caldi sul finire degli anni sessanta. 
I protagonisti sono adolescenti, amici e un po’ emarginati per la loro condizione, ma affiatati e vogliosi di rompere i soliti stereotipi legati alle tradizioni passate. Stella vuole diventare scrittrice e ha una camera tappezzata di poster e riferimenti a film dell’orrore di cui è appassionata, sembra quasi che non abbia paura di nulla e a volte si butta ingenuamente nelle cose, vive sola con suo padre dopo che la madre li ha abbandonati quando era piccola; Ramon, al contrario, è discreto e cerca di passare nell’ombra, crede alla paura reale più di quella immaginaria e ha un segreto nascosto che non può rivelare.
Ho trovato analogie e somiglianze con alcuni prodotti dell’horror contemporaneo, per esempio con It di Stephen King, probabilmente per la scelta dei protagonisti, per la paura stessa usata come strumento e arma, e per l’evoluzione e la crescita dei ragazzi. Diventare grandi e tutto ciò che ne comporta può risultare assai spaventoso e difficile da gestire.
Ho apprezzato molto l’idea della storia come entità dotata di un peso reale e una vita propria e non limitata solo ad inchiostro freddo: leggendo tra le righe possiamo pensare al peso che le parole hanno e che a volte le nostre storie, seppur inconsapevolmente, possono ferire e uccidere qualcuno per alleviare il nostro dolore.

Rimanendo perfettamente in tema Halloween, i toni gotici e dark sono evidenziati dalle atmosfere notturne, dalla spettralità e maestosità della casa che ricorda i grandi manieri delle opere ottocentesche. La notte e il buio sono grandi protagonisti, le storie, infatti, compaiono ogni sera, trascinando nell’oscurità le proprie vittime. Menzione speciale alla colonna sonora che sa spingere quando serve andando a creare un velo di souspance che ci tiene incollati alla visione. 
Non è un horror come ce lo si aspetterebbe, non è un susseguirsi di scene paurose e jump scares, per cui se è questo quello che cercate non lo troverete, è un film che sa fare della paura una chiave di lettura e sa puntare sulle sue creature, frutto degli effetti speciali, per stupire lo spettatore.


I mostri sono spesso rappresentati come brutti, deformi, ingombranti e violenti, ma non sempre riusciamo a capire che sono il riflesso di una sofferenza più profonda e l’immagine della nostra stessa paura che non riusciamo a vedere, e che trova nel fare male agli altri l’unica via d’uscita per liberarsene per sempre.





martedì 15 ottobre 2019

DION

Quanto ci piace fantasticare sul futuro e immaginare che il mondo soprannaturale non sia poi così distante dalla nostra realtà di tutti i giorni?
A me personalmente tantissimo, e credo che un paio di superpoteri farebbero al caso mio per risolvere gli inghippi della vita.
Ma per essere un bravo super non bastano l’invisibilità, la telepatia o il teletrasporto. Serve imparare a vivere e usare la propria unicità come un’arma a servizio di noi stessi e degli altri.
In questa storia non parliamo di futuro, ma di presente, il nostro tempo e il nostro decennio.
Dion (Ja'Siah Young) ha sette anni, quasi otto, è vispo, curioso, appassionato di eroi e videogiochi, ama i lego e la scienza che è ciò che lo lega a suo padre Mark (Michael B. Jordan), di cui è rimasto orfano che di mestiere faceva il ricercatore per conto della Biona, un ente di ricerca che si occupa di fenomeni atmosferici. 
Nicole (Alisha Wainwright), la madre, è una donna premurosa e attenta, che si divide tra casa e lavoro cercando di occuparsi al meglio del figlio appoggiandosi anche alla spalla di Pat (Jason Ritter) che ha assunto per il bimbo il ruolo di padre e mentore ed era un collega e amico di Mark.

Ma come fare se misteriosamente a colazione i cereali non li versi più tu ma sono loro stessi a versarsi nella tazza? Oppure se mentre sei arrabbiato cominci a far tremare la lampada? E soprattutto, se non ci si riesce a fermare in tempo? 
Sono notizie piuttosto sconvolgenti per una qualsiasi persona, figuriamoci per un bambino di quell’età, che, come è giusto che sia, ovviamente, coglie la cosa come la più fica delle situazioni e la inizia ad usare a suo piacimento. E allora però, come si imparano a dosare i poteri? Esiste una scuola o basta solo ricercare in se stessi?
 
È una domanda complessa alla quale non riusciamo e non vogliamo dare risposta per tutti gli episodi, ci avviciniamo alla soluzione ma è come se volessimo conservare un po’ di quel briciolo di fantasia che associa la padronanza della magia e degli attributi extra a qualcosa di più di semplice esercizio, a qualcosa che si ha dentro. D'altro canto la magia non è campata in aria ma circondata da un alone di mistero che ci porta a credere che possa realmente essere possibile in un futuro prossimo dotarsi di capacità fuori dal comune.

Come per chiunque però, non tutto è rose e fiori, e la vita di Dion è minacciata da un preside razzista che non lo vede di buon occhio, da un gruppetto di ragazzini che non fanno altro che escluderlo dal loro gruppo e da uno strano nemico, presente e burrascoso, che terrorizza come lui altre persone e che, senza farsi sentire, spia di nascosto ogni piccolo movimento per trovare il giusto momento e attaccare. 

Dion è un bambino, certamente, ma è anche l’incarnazione dello spirito di ogni supereroe che si rispetti: premuroso, a volte irruento ma dall’animo gentile e altruista, che nonostante tutto si comporta come dovrebbe comportarsi un qualsiasi bimbo di sette anni, e che, tra qualche capriccio e disubbidienza, capisce che ad ogni azione corrisponde un effetto anche se non immediato.

Non sono solo i personaggi fisici i protagonisti di questa serie Netflix, creata da Carol Barbee e Dennis A. Liu prodotta nel 2019 basata sull’omonimo fumetto di Liu del 2015; 
diventano protagonisti anche le emozioni: la paura che fa perdere la calma e tremolare la luce, la felicità di un abbraccio e la gratitudine del perdono per le incomprensioni, la solitudine del sentirsi diversi racchiuso nel personaggio splendido e dolcissimo di Esperanza (Sammy Haney), una bimba in sedia a rotelle, sempre sorridente e genuina, che osserva “invisibile” il mondo intorno a lei e  che difende in tutto e per tutto il suo “migliore amico” Dion insegnandogli il vero significato di amicizia. 
Ma anche il dubbio e la confusione di non sapere cosa si è davvero e cosa si potrebbe realmente fare hanno largo spazio lungo la narrazione, perché in fondo cosa è bene e cosa è male non siamo sempre in grado di deciderlo come se fosse un test a crocette, e scegliere da che parte stare si accompagna a non pochi sacrifici e sofferenze. Dion è umano in tutte le sue sfumature e rende davvero difficile non affezionarsi al suo personaggio. 

Fusione perfetta tra fantascienza e thriller, nasconde nella sua semplicità messaggi importanti e delicati trattandoli normalmente, nulla di eclatante, ma con semplicità. Scorrevole e travolgente, finita nel giro di un paio di giorni. Mantiene incollati allo schermo creando suspense e voglia di continuare sempre di più andando oltre la banale convinzione che un supereroe debba combattere ad ogni costo per risultare convincente.

L’energia si crea ma non si distrugge, e una volta sconfitta, cambia solo forma ma non se ne andrà mai davvero.



Storm - Victor Crone


venerdì 11 ottobre 2019

Se veniamo spinti ad ignorare, impariamo ad aprire gli occhi

Siamo portati sempre più a credere che l’intrattenimento, l’informazione e le piattaforme social che utilizziamo tutti i giorni e che ci vengono proposte siano libera, e ci viene da storcere il naso solo quando ci ritroviamo di fronte a sistemi sociali di altri paesi, dove la libertà di parola, di pensiero e di espressione, non esistono realmente e dove si censurano determinati prodotti. Quello di cui non ci rendiamo conto è che, seppur in maniera diversa e con minore potere, anche noi non siamo poi così liberi.
Viviamo in un mondo che sempre di più comincia a programmare e selezionare, come se avesse un’agenda, gli argomenti a cui sottoporre la nostra attenzione. Nel linguaggio della comunicazione si parla di agenda setting, decido di stabilire un ordine di priorità su cui devio l’opinione pubblica: certe notizie avranno grande spazio, altre non verranno nemmeno citate. Fino a qualche tempo fa si attribuiva solo all’industria televisiva e dei mass media, ora si cominciano a vedere gli effetti anche sulle piattaforme digitali. 
Questo ci induce a restare vigili e controbattere informandoci da soli su ciò che non ci viene proposto; per farlo possiamo ricorrere a giornali (online e cartacei), ma anche alle nuove frontiere dell’informazione altrettanto utili e spesso ignorate da un target più adulto. Per esempio l’ala di YouTube Italia che si occupa di attualità e informazione è preferita dai giovani e vanta canali seguitissimi come Breaking Italy, condotto da Alessandro Masala (Shooter Hates You) con la formula di una sorta di telegiornale quotidiano online, o WesaChannel, o ancora GioPizzi[1]e molti altri. Tutti loro, con format differenti propongono un tipo di informazione ampio e variegato approfondendo temi sociali, economici, politici italiani, europei e mondiali proponendo spunti che non si trovano altrove e suggerendo letture o riferimenti esterni. Questi prodotti funzionano in quanto vengono percepiti slegati dal sistema di programmazione, sono più indipendenti, tuttavia, per questo motivo, spesso vengono sanzionati dalla stessa piattaforma che demonetizza i video, non favorisce l’entrata in tendenza (e quindi il raggiungimento di un più ampio pubblico), fino ad eliminare gli stessi video (massima soluzione adottata, di norma, solo in caso di violazione delle regole, che quindi non trova motivazione nei loro confronti

Se quindi ci ritroviamo davanti una società che tende ad ignorare determinati argomenti, che tende a censurare silenziosamente chi li propone, cosa vuol dire prestare attenzione?
1)    Vuol dire permettere in parte una resistenza. Dobbiamo ricordarci che la libertà di pensiero parte da noi cittadini e che la libertà, nel suo significato più ampio e generale, è sia un diritto che un dovere. Se iniziamo ad accomodarci a società che sono tutt’altro che libertarie finiamo a rimetterci ben più di qualche miliardo.
2)    Ci tiene a tenere a mente che esistono interessi che vanno oltre quelli economici e che dovrebbero seriamente essere presi in considerazione dai capi di governo, da chi gestisce provvedimenti e progetti. Siamo uomini dotati di intelletto non solo per fare manovre finanziarie, ma per empatizzare e lottare per il giusto e “schierarsi” può voler dire perdere qualcosa.
3)    La censura, da silenziosa a presente, ci mette un attimo a trasformarsi ed è pericolosissima. Diventa altrettanto spaventoso che società libere e democratiche scelgano di appoggiare, in nome di interessi altri, l’approvazione o la disapprovazione di topic proposti. Di questo si parla, di quest’altro meglio di no, di questo fai come vuoi ma se scoccia lo togliamo o ti puniamo.
Non stiamo parlando solo della Cina [2]che ormai aleggia come uno spettro sopra le teste di tutti ed è capace di mettere in ginocchio con un dito, non è nemmeno la Turchia di Erdogan che gioca a scacchi con l’America sacrificando migliaia di persone. Parliamo nel piccolo dell’Italia, dell’Europa, dell’America stessa che, con un click, possono scegliere di “spegnere” le piattaforme digitali a qualcuno perché indesiderato.
Scomodo.
Ma cosa diventa scomodo al giorno d’oggi: il messaggio, il contenuto del video, il canale, il fatto che digitale diventa virale in un attimo anche se si prova a cancellarne traccia? O la possibilità che chiunque, ogni singolo cittadino, possa accedere a quel contenuto e quindi formarsi un’opinione non in linea con la scelta governativa?
È scomoda la libertà che tanto ci caratterizza. La vogliamo e la predichiamo, ma quando ne siamo in possesso ci spaventa e ci rende titubanti. 
È una domanda legittima che ci dobbiamo porre e alla quale possiamo rispondere continuando a informarci e a farci un’idea nostra, pretendendo che si prendano posizioni nette nei confronti di ciò che succede nel mondo.
Ricordiamoci che della privazione della libertà altrui ne risente anche la mia, e che si comincia pian piano per arrivare a risultati ecclatanti.



People Live Here - Rise Against

[1]Il cui ultimo video, sulla situazione dell’instabilità siriana e sull’invasione turca, è stato demonetizzato ingiustamente. Link: https://youtu.be/w3KZ2KXze6c

[2]È noto il provvedimento preso dalla Blizzard, casa produttrice di videogiochi statunitense, che ha sospeso per un anno un  giocatore di Hearthstone, dopo che lui aveva espresso solidarietà ad Hong Kong

venerdì 20 settembre 2019

Unbelievable. Incredibile


Incredibile.
Perché non ci sono segni di effrazione o scasso, non ci sono tracce di fluidi corporei, il coltello appartiene alla vittima che non riesce a far combaciare le molteplici versioni che è costretta a dare alla polizia. Incredibile, perché essendo una “giovane a rischio”, con un passato difficile alle spalle, che ha cambiato numerose famiglie affidatarie, ci si aspetta di tutto per attirare un po’ l’attenzione, e il dubbio morde silenzioso l’orecchio di chi la conosce. Incredibile, perché è complicato aprire un’indagine senza avere prove effettive, senza che nessuno abbia visto nulla, è più semplice chiudere il caso il prima possibile. Incredibile, perché uno stupro è sempre difficile da accettare e ci sembra una realtà così lontana da noi che non la percepiamo come possibile finché non la proviamo o non conosciamo persone che ci sono andate vicine.




Incredibile, unbelievable, è il titolo della miniserie Netflix scritta, diretta e prodotta da Sussanah Grant, basata su fatti realmente accaduti. L’avevo addocchiata qualche giorno fa, salvo poi ritrovarmela consigliata in un gruppo Facebook di cui faccio parte, l’ho iniziata e finita nell’arco di una giornata e credo me la riguarderò al più presto per evidenziarne i più piccoli dettagli.

Non c’è un personaggio principale, ci sono tante figure che compaiono e scompaiono, le cui vite si intrecciano inevitabilmente in una fitta rete che attraversa l’intero Colorado e si estende ad altri stati americani. 
È stata definita da alcuni una serie tv femminista, io toglierei questo aggettivo che sta diventando sempre di più un’etichetta, lascerei solo serie tv e consiglierei la visione a un pubblico più ampio possibile, perché la realtà dei giorni nostri pullula di situazioni simili, e di donne che non denunciano o non sono credute sentiamo spesso le storie. 




Marie Adler (Kaitlyn Dever) ha diciotto anni, vive in una comunità per ragazzi che escono dal giro degli affidi e una notte viene stuprata da un misterioso uomo mascherato entrato dalla porta finestra della sua camera che l’ha legata e minacciata scattando poi alcune
foto. Rimane sconvolta ma non reagisce come gli altri si aspetterebbero, cerca di comportarsi come se nulla fosse successo,
va al lavoro come sempre, ma qualcosa in
lei si è rotto, anche se non in maniera evidente lo si può leggere nei suoi sguardi impauriti, nell’ansia di ogni piccolo rumore, nel non voler parlare di quella notte nonostante la si continui a sognare in loop. Tuttavia due delle ex madri affidatarie, quelle a cui Marie è più legata, cominciano ad avere il sospetto che la ragazza possa essersi inventata tutto e favoriscono il detective che decide di chiudere la vicenda senza troppi indugi. 
Marie viene archiviata con un’accusa di falsa testimonianza a suo carico, una multa di 500$ da pagare, la libertà vigilata da rispettare e il peso di sapere di aver detto la verità ma di essersi auto-convinta di aver mentito. La storia di Marie è incredibile e lei non viene creduta nemmeno da coloro che le sono più vicini, anzi, viene additata come bugiarda e dovrà subire le conseguenze di questa condizione.

A distanza di anni, in Colorado, in due contee distinte, le detective Karen Duvall (Merrit Wever) e Grace Rasmussen (Toni Collette) vengono incaricate di due casi di aggressione sessuale molto simili tra loro, anzi pressoché identici. Non fosse che una vittima è giovane e bianca e l’altra anziana e nera si direbbe che potrebbe essere la medesima scena. Per puro caso riescono ad entrare in contatto l’una con l’altra e, mettendo insieme una squadra di collaboratori, decidono di lavorare al fine di incastrare quello che si sta dimostrando sempre di più uno stupratore seriale. Entrambe, con le sfumature di carattere che le rendono diverse, spiccano non solo per qualità lavorative, ma per doti empatiche. Sarà che forse ci sentiamo più coinvolte dal nostro punto di vista rispetto ai colleghi maschietti? O forse, sono il peso delle esperienze passate e delle conseguenze delle nostre azioni a spingerci a dare il meglio per non lasciare che il silenzio si prenda nuovamente la vita di qualcuno?
La mappa si infittisce, compaiono sempre più nomi, sempre più luoghi e dettagli utili, più piste aperte da poter seguire, più storie da indagare.
Pongono l’accento sulle scene del crimine, immacolate, sull’attenzione che l’aggressore riserva all’occultamento delle prove, nel far lavare le vittime per cancellare eventuale DNA, nella meticolosa scelta di non ripetere mai più di una aggressione nello stesso distretto, come se conoscesse molto bene le procedure d’indagine e le mancanze di comunicazione del sistema. Per questo motivo balena loro in mente l’idea che il possibile colpevole sia un poliziotto che gode di informazioni accurate e anche di una certa omertà protettiva all’interno del suo ambiente. Perché si sa, purtroppo, che non si tratta di fantascienza, ma di cose che accadono.

Incredibile diventa anche l’accusa, per niente velata, alla corruzione del sistema di polizia americano, ma che ognuno di noi può riportare nel proprio paese, dove atti di violenza, domestica e non, stupri e aggressioni ad opera di poliziotti e membri dell’arma, vengono sotterrate dagli stessi colleghi e risolte con un trasferimento da una centrale all’altra. 

Terminato l’ottavo episodio ciò che mi ha invaso è stato un senso di tristezza e rabbia e un po’ di timore che possa succedere lo stesso anche a me e che, a mia volta, io non venga creduta. Per questo motivo consiglio la visione a chiunque voglia vederla, c’è bisogno di portare alla luce una realtà sempre più frequente, soprattutto negli ultimi anni, qui in Italia, dove sono notizie quasi all’ordine del giorno. Non devono rimanere notizie che nascono e muoiono in una pagina di quotidiano, dobbiamo ricordarci che si tratta di persone, e c’è bisogno, per poter agire davvero, che queste storie siano portate alla luce e raccontate. 
E ci vuole un sistema che agisca a dovere in caso di denunce di violenza, e che prenda provvedimenti contro chiunque abbia comportamenti aggressivi e violenti, donna o uomo che sia. La violenza contro chiunque andrebbe condannata e smascherata, ma per farlo bisogna essere educati al rispetto degli altri e per sé, alla tempestività delle azioni di allontanamento che in alcuni casi determinano la vita o la morte. Occorre un protocollo che non rimandi.
Unbelievable è incredibile perché rispecchia la nostra società e dà fastidio, ci spinge a non credere che sia così, fa male, ma è giusto che lasci in noi questo sentimento perché è necessario per cambiare le cose.

“La tenebra non può scacciare la tenebra: solo la luce può farlo. L’odio non può scacciare l’odio: solo l’amore può farlo. L’odio moltiplica l’odio, la violenza moltiplica la violenza, la durezza moltiplica la durezza, in una spirale discendente di distruzione.”
(Martin Luther King)






lunedì 16 settembre 2019

La nostalgia delle cose belle: Festival della Comunicazione di Camogli 2019

La nostalgia delle cose belle assale sempre quando meno ce lo aspettiamo: magari siamo stesi a letto a farci gli affari nostri in santa pace ed eccola lì che spunta, quella puntina sempre più insistente che sposta il pensiero direttamente all'esperienza appena passata. E allora non c'é un'ora corretta per fermarsi a ricordare cosa si é vissuto, c'è chi la prova subito dopo, chi a distanza di settimane, e chi, come me, dopo un giorno e mezzo, quando si è tornati alla routine quotidiana e si sente che manca la sveglia la mattina presto, manca intravedere il mare e lavorarvi a pochi passi, mancano persino le persone incontrate in questo breve periodo. C'é il momento di sentirsi così e basta! Arriva quando arriva.
E nonostante il viaggio da pendolari dopo tre giorni si sia fatto sentire, regalandomi una notte di sonno come non ne vedevo da tempo, porto a casa un bagaglio di esperienza bello grosso che temo non entrerà totalmente in macchina, ma a questo punto, anche in previsione del futuro, bisognerà solo comprare un'auto più grossa. (Ironia portami via).

Camogli é stata una novità: primo anno da volontaria, ma non da fruitrice. Incontri interessanti, relatori vecchi e nuovi che si sono dati il cambio sui vari palchi arrovellandosi il cervello, già in ebolizione a causa delle alte temperature, per dare una loro particolare idea di civiltà. Perché civiltà era proprio il tema di questa sesta edizione del festival.

E allora cos'é civiltà?
É tecnologia, inclusione, sostenibilità, dialogo, confronto, evoluzione e anche conservazione, perché i prodotti che funzionano non devono scadere ma essere preservati per diventare modelli di ispirazione.
Tra i miei interventi preferiti cito sicuramente Federico Rampini, Alessandro Barbero, Gianvito Martino, Serena Porcari, Roberto Olivi e Claudio Arrigoni. Ma questi sono solo alcuni che ho avuto la fortuna di poter ascoltare. Perché il festival é un'occasione di stimolo e incontro, soprattutto per chi come me vorrebbe comunicare un giorno, é un'enorme palestra che spinge ad apprendere il piú possibile da ogni intervento e nel far nostri questi "appunti virtuali" che annotiamo, si richiede una piccola riflessione e interiorizzazione personale che attiva il giudizio critico. Tutto questo é indice di civiltá.

Ma civiltà é anche libri, diritti, cultura, laboratori, ricerca, musica. Divertimento.
E Camogli tutto questo lo ha saputo creare da sé, con una cornice perfetta e quattro stupende giornate di fine estate che il tempo ci ha voluto regalare.

Non resta che aspettare con ansia il prossimo anno. Socialitá sará il fulcro.
Ne vedremo delle belle!



Tenebra è la notte - Murubutu, Dia

giovedì 12 settembre 2019

Glee: insegnare la vita cantando. Ecco perché andrebbe vista da tutti almeno una volta!

Mi chiedo spesso in che modo strumenti esterni come musica, letteratura, cinema, televisione possano generare un rapporto intimo con le persone. È un mondo affascinante lo spettro delle emozioni umane, così ampio che ancora oggi non riusciamo a trovarne una fine e forse non è un nostro desiderio farlo. Si creano fili invisibili che legano tra loro persone lontanissime e le avvicinano sempre di più.
Credo che sia chiaro che per me la musica sia diventata uno strumento di gioco, una possibilità di espressione che va oltre la mera parola, connette un livello superiore, entra nei miei pensieri e lì rimane, a popolare sogni e realtà. Senza musica probabilmente mi ritroverei triste. 
Tutto questo non è nato per caso, è sbocciato negli anni, e ce ne sono voluti, per esempio, prima che decidessi di rendere pubblico quello che scrivo aprendo il mio piccolo blog che, come dice il suo nome, non è nient’altro che me e quindi nient’altro che ce.
Ma prima di essere Ce, e di sentirmi a mio agio con me stessa, ho attraversato un periodo in cui avrei voluto essere altro. La persona che ero non mi piaceva, vedevo solo negli altri qualcosa di interessante, invidiavo le qualità altrui e condannavo tante piccole cose che componevano la mia persona.
Forse è per questo motivo che ho sviluppato un attaccamento molto forte a Glee, serie tv americana prodotta da Fox tra il 2009 e il 2015, forse vedevo nei personaggi    dello show una fetta della mia vita. Loro erano degli sfigati, gli ultimi nella scala gerarchica scolastica, affossati dalla scuola stessa, ma nonostante tutto non avevano mai smesso di credere di potersi meritare qualcosa dalla vita, guidati da uno splendido Will Schuester, professore che dovrebbe essere un modello a cui gli insegnanti potrebbero aspirare. 
Avrò avuto sì e no tredici anni quando guardai la prima puntata, e mi cruciavo con i problemi tipici di quell’età, che a pensarli adesso sono davvero banali e stupidi, ma allora avevano un peso sulla mia autostima non da poco. Non sono mai stata una persona chiusa e introversa, al contrario, però c’era qualcosa che mi faceva vergognare di me. Mi consideravo un po’ una sfigata anche se, col senno di poi non saprei definire cosa renda veramente una persona meno di un’altra, mi vedevo come una bambina rispetto ai miei coetanei, evitavo lo sguardo dei cosiddetti “popolari” invidiando qualche like in più alle mie foto, non avevo mai avuto un ragazzo e non ne baciai uno fino ai sedici anni, portandomi un fardello pesante da mandare giù, mi tormentavo con l’idea di non essere come gli altri e anche quando provavo ad assomigliarvi non mi sentivo a mio agio. L’adolescenza è il periodo delle domande a cui non si riesce a trovare una risposta, degli esperimenti, e Glee metteva in scena tutto questo ponendomi di fronte a qualcosa a cui non avevo mai pensato. 
Chi ero io e cosa volevo essere?
Probabilmente quello che mi ha insegnato lo hanno fatto pochi nella vita reale, o almeno non in modo così diretto e naturale allo stesso tempo. È per questo che trovo Glee una delle serie più riuscite di questi anni. Ed è per questo che ha un posto speciale nel mio cuore e che tutti dovrebbero guardarla almeno una volta nella vita.
Io, a distanza di sette anni da quella prima volta, ho schiacciato play di nuovo ringraziando Netflix per averla caricata completa. 
Per chi non lo sapesse, Glee tratta le vicende di un gruppo di studenti liceali di una cittadina di provincia dell’Ohio che decidono di dare nuova forza al corso di canto coreografato della scuola perseguendo il sogno di poter vincere un giorno il trofeo delle nazionali, gara prestigiosa tra diversi istituti del paese. La loro vita non è facile né prima, né dopo aver incassato dei successi. 
Granite in faccia, risate, sotterfugi e lanci nei cassonetti sono all’ordine del giorno, di pari passo con le cattiverie di Sue Sylvester, coach dei Cheerios, la squadra di cheerleader del liceo, che non accetta che altre attività le tolgano risorse e individui.
Ovviamente il modello presentato è quello americano e da noi non ci sono giocatori  di football che ti appendono agli armadietti, anche perché non abbiamo armadietti, ma è il messaggio importante. Non si deve sempre scegliere da che parte schierarsi, si può essere solidali ed entusiasti di far parte di più gruppi se è questo quello che ci rende felici
Così Glee mi ha insegnato il rispetto per sé e per gli altri, mi ha insegnato che si può essere stati bulli e aver deriso qualcuno, ma si può tornare indietro e ammettere i propri sbagli, che il quaterback può diventare il migliore amico di un ragazzo gay, che si possono provare sentimenti per gli amici, che si può essere se stessi anche se si ha una paura boia di scoprirsi e se si è diversi in qualche modo non è perché si è sbagliati, mi ha insegnato che si può avere paura, si possono commettere errori e si può trovare una soluzione. Ci si può innamorare e può andare male, ma anche bene, e che non ci si deve nascondere all’amore. 
Si può essere insicuri e trovare la forza negli altri, si può stare in carrozzina e far ballare tutto il palco, si può essere timidi e intraprendenti, si può essere logorroici e petulanti e rimanere senza più parole. Si possono invidiare gli altri per il loro aspetto, si può desiderare di cambiare per piacere di più, ma stranamente trovarsi sorpresi di quanto si possa star bene con se stessi. Si può essere Loser Like Me ed essere fieri di questo.
Mi ha insegnato che ci sono persone che faranno di tutto per impedirti di riuscire, che ti vedranno sempre come un fallimento e non crederanno mai in te, salvo poi cambiare idea quando si scontreranno con la realtà dei fatti e dovranno riconoscere il tuo talento. Ha reso chiaro che ci sono e ci saranno professori che vorranno il male dei loro ragazzi per interesse personale, e Maestri che tengono ai propri studenti più di quanto ci si aspetti.
Che crescere fa paura e che non ci si sente mai troppo pronti a lasciarsi alle spalle ciò che si conosce. Che inseguire un sogno è l’unico modo per poterlo realizzare. Che le vittorie si raggiungono con impegno, fatica e studio e che se si perde non è una tragedia perché ci sarà sempre una seconda chance.
Che la scuola può essere più che un semplice edificio, può essere una casa, e gli amici una famiglia, e che di insegnanti come Will Schuester ce ne sono davvero e ti fanno sentire amato e compreso anche quando tutto trema, senza perdere la loro professionalità, che si può essere genitori insensibili o amorevoli, che si può trovare un padre, una guida, un coach nel professore di spagnolo.
Che si possono prendere strade sbagliate e si può morire. Che si può andare avanti nonostante la perdita. Che si continua a vivere nel ricordo degli altri. 
Che la musica accende un fuoco e sta a noi mantenerlo vivo, che si possono cantare i problemi, le emozioni, i timori. 
Che si può essere vivi solamente se ci si rende conto di star vivendo senza sprecare il tempo a disposizione.
E ho trovato il discorso di Sue Sylvester e l’esecuzione di I Lived dei One Republic il miglior finale possibile, e l’augurio più grande che un insegnante possa fare ai suoi studenti. Vi auguro di vivere, vivere a pieno, emozionarvi ed essere soddisfatti di quello che avete avuto la possibilità di fare.
Una signora estremamente sovrappeso una sera salì su questo palco e disse a una dozzina di nerd travestiti da figli dei fiori, che il Glee Club, come dice la parola stessa, apre il cuore di chi vi partecipa all’allegria. Non è un segreto che per anni tutto questo mi sia sembrato una cavolata, per come la vedevo io, il Glee Club, era un posto in cui dei codardi perdenti narcotizzavano i problemi cantando e che, poveretti, si illudevano di vivere in un mondo in cui importava qualcosa delle loro speranze e dei loro sogni rifiutandosi di guardare in faccia la realtà. E cioè che nel mondo reale, non ci sono poi tante cose in cui sperare eccetto fallimenti, cuori spezzati e frustrazioni. Indovinate un po’? Avevo perfettamente ragione, il Glee Club è questo, niente di più e niente di meno. Ma mi sbagliavo sui codardi perdenti, quello che alla fine ho potuto constatare, adesso che mi sto avvicinando alla soglia dei quarant’anni, è che ci vuole un’audacia spropositata a guardarsi intorno e vedere il mondo non com’è in realtà, ma come dovrebbe essere. Un mondo Din cui un quaterback diventa il migliore amico di un ragazzo gay, e in cui la rompiscatole col nasone finisce a Broadway. Glee vuol dire immaginare un mondo del genere, e trovare il coraggio di aprire il proprio cuore e cantare i propri sogni. Il Glee Club è questo, e per tutto questo tempo l’ho creduta una sciocchezza, invece ora al ritengo la cosa più spavalda e coraggiosa che una persona possa fare.”
Sue Sylvester, 6x13, I sogni si avverano.


Glee è stata più di una semplice serie tv, è stata una transizione. E se ora come ora sono la persona che sono, è anche merito suo.


sabato 31 agosto 2019

CRESCERE

Cantavamo senza paura
Persi dentro al mondo in un'estate
Lontana quella voglia di morire
Sprofondare in un albergo ad ore
Senza neanche dirci che era amore 
Senza neanche dirci che era amore…

Un’estate - Mannarino

TEMPO. Sicuramente è una delle parole più incisive di questo mio racconto. Il tempo vola. Se ne rendono conto gli anziani che se lo vedono portato via dai giorni che passano, i genitori, che si ricordano i loro “bimbi” sempre come un tempo, piccoli e da proteggere, e che vivono il progressivo distacco in modo sofferente, infine ce ne rendiamo conto noi giovani, forse in una maniera ancora più aggressiva: il tempo ci sfugge dalle mani e noi spesso non riusciamo a stargli dietro, pieni di cose da fare e di progetti, a volte impossibili, da realizzare. Molto spesso poi, a posteriori, ci rendiamo conto di averlo anche sprecato per cose inutili che ci hanno sottratto energie che potevamo investire in altro.
Vi siete mai fermati a pensare all'esatto momento in cui vi siete accorti di star crescendo? La sensazione di libertà fresca sulla pelle e allo stesso tempo un brivido di timore per quello che potrà essere il futuro?
Io me lo chiedo spesso, soprattutto sul finire dell'estate, quando torno a casa a fare le cose che faccio sempre. Mi viene proprio da dire: "tutto sta pian piano cambiando”. È circondata da un alone di nostalgia quest’ultima affermazione che si accompagna ad una serie sparsa di ricordi più recenti o meno che affollano la mia mente specialmente prima di dormire. In genere sono momenti di vita comune, niente di straordinario. Ed è proprio questa consapevolezza del cambiamento a generare in me un contrasto di stati d’animo: da un lato c’è la voglia di prendere, partire, portare avanti idee e buttarmi senza troppi pensieri in quello che mi aspetta, dall’altro c’è un freno a tutto questo, la paura di lasciare il nido sicuro, gli amici, la mia città, perché tutto mi sembra arrivare troppo in fretta. Credo sia il corso naturale della vita.

Sogna, ragazzo sogna                                                                        Sogna, ragazzo sogna 
Quando cade il vento ma non è finita                                                    Non cambiare un verso della tua canzone 
Quando muore un uomo per la stessa vita                                              Non lasciare un treno fermo alla stazione 
Che sognavi tu                                                                                  Non fermarti tu

Sogna ragazzo sogna - Roberto Vecchioni
CRESCERE è questo, il passaggio dalla giovinezza alla vita adulta, uno scoglio importante che separa la spensieratezza e l’ingenuità tipiche di quest’età da una serietà e responsabilità che dovrebbe essere raggiunta con gli anni. Spaventa. È proprio per questo che se dovessi rimanere fedele al buon vecchio Peter Pan mi direi anche io di non voler crescere mai e rimarrei felice sull'Isola Che Non C'è, ma credo mi stuferei presto perché so che questo in fondo non è ciò che vorrei davvero per me. 
E' un attimo e ti svegli che hai 20 anni, e non ti sembra vero, anche perché se ti guardi allo specchio ne dimostri almeno tre di meno, e allora pensi che davvero il tempo scorre velocissimo, ti sembra ieri che hai fatto la maturità e invece a breve cominci il secondo anno di università. Ed è un attimo che prendi la patente, è un attimo che ti fai la spesa e ti prepari il pranzo da portare via tutte le mattine, è un attimo che pian piano cominci anche a cambiare il modo di vivere casa tua, vivere le tue amicizie e le tue relazioni.

Seasons, they will change                                                                    Seasons, they will change
Life will make you grow                                                                     Life will make you grow
Dreams will make you cry, cry, cry                                                       Death can make you hard, hard, hard
                                                                                                      Everything is temporary
                                                                                                      Everything will slide
                                                                                                      Love will never die, die, die                                                      
Birds - Imagine Dragons
Crescere si accompagna a tremila domande silenziose: ce la farò? Riuscirò a fare quello che voglio? Come si cerca lavoro? Come preparo un esame difficilissimo in meno di due settimane perché in fondo sono una disorganizzata cronica? Come sarà casa mia? Perché se penso alla condizione attuale della mia camera, il timore di una volta che sarò davvero sola a gestirmi un appartamento, mi incupisce e non poco. È paura di sbagliare, di non essere all’altezza delle aspettative che mi sono autoimposta.
Non sono ancora in grado di gestire al 100% la delusione di un rifiuto, soprattutto se relativo a qualcosa in cui sto investendo tanto e in cui mi sento anche piuttosto bravina. È un po’ la testardaggine del mio carattere, e spero che la vita mi insegni presto a prenderne precauzioni per non rischiare di finire troppo ammaccata dopo tutte le porte chiuse che riceverò. La domanda naturale che mi pongo in questi casi è: “Ma allora sto facendo davvero bene a continuare per la mia strada?”, generalmente la risposta me la trovo da sola o con l’aiuto di tutti quelli che mi circondano, che mi spronano a continuare. Ed è ovviamente un grande sì, accompagnato da un sonoro “porta pazienza, prima o poi succederà!”.

Ma che ci volete fare
Non vi sembrerò normale
Ma è l'istinto che mi fa volare

Non c'è gioco né finzione
Perché l'unica illusione
È quella della realtà, della ragione

Sono solo canzonette - Edoardo Bennato
Ma probabilmente questi saranno cambiamenti di pensiero e prese di coscienza necessari a migliorare la mia vita. Diventare maggiormente responsabili di sé e degli altri, più ordinati e organizzati, mi renderà tutto più semplice.Poi comunque mi sento una persona che si adatta alle varie situazioni in fretta e senza troppi problemi, anzi, le sfide mi incuriosiscono.
PARTIRE. È l’ultima tappa del mio piccolo viaggio, l’ora di lasciarsi alle spalle la linea gialla sicura che separa dal treno. So che arriverà molto presto e non so se mi troverà pronta, ma potrà essere l’inizio di qualcosa di molto molto bello. La vita è un attimo e bisogna coglierla al volo. 

Domani partirai                                                                                Ho temuto questo giorno 
Non ti posso accompagnare                                                                  È arrivato così in fretta 
Sarai sola nel viaggio                                                                          E adesso devi andare 
Io non posso venire                                                                             E la vita non aspetta 
Il tempo sarà lungo 
E la tua strada incerta 

Il viaggio - Fiorella Mannoia

MUSICA. È l’ultimo tassello di questo puzzle, non è uno step del percorso, è una costante. Una via d’uscita sempre pronta e sicura, un’occasione di incontro e di riflessione interiore ed esteriore. Come in tanti altri casi è mia musa ispiratrice e tramite tra testa, cuore e mano che scrive. Le parole che sono riuscita a mettere insieme sono anche frutto delle strofe che ho citato per cui è mio consiglio quello di ascoltarvele per capire meglio le sensazioni, sono passato e presente della mia vita. E chissà che cosa il futuro avrà in serbo per me.

Quello che mi ricordo io                                                                       Stanotte voleremo via
Erano i denti stretti sempre                                                                   Chissà che cosa ti dirà tua mamma
E la paura di inciampare nelle vite della gente                                         Ti guardava andare in bici senza mani
                                                                                                       E ora ti guarda andare via senza un domani

Monopoli - Pinguini Tattici Nucleari