martedì 13 agosto 2019

Se i bambini addormentati sul fondo del Sand Creek fossimo noi?



          “Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura
sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura
fu un generale di vent'anni
occhi turchini e giacca uguale
fu un generale di vent'anni figlio di un temporale
C'è un dollaro d'argento sul fondo del Sand Creek”


C' è un sottile velo invisibile che separa arte e realtà e un filo altrettanto invisibile che può tenere uniti passato, presente e futuro e può permetterci di trovare accostamenti reali tra cose che a prima impressione ci sembrano distanti anni luce. In questo, come in molti altri casi, è la musica la leva conduttrice di questa mia analisi, nata spontanea durante un viaggio di ritorno che mi ha concesso tanto tempo per pensare. In vista dei recenti avvenimenti, sia italiani che non, ringrazio la mia playlist Spotify per avermi aiutato in questo mio piccolo viaggio.

De Andrè scrisse questa canzone per ricordare il massacro che gli americani fecero a danno degli indiani d'America delle popolazioni Cheyenne e Arapaho intorno al 1864. Sono passati più di 150 anni da quel giorno, ma possiamo leggere le parole di questa canzone in chiave contemporanea calandola ai giorni nostri e ai vari tumulti politici, sociali e ambientali che il nostro mondo sta attraversando. Ci sono persone, da ogni dove, che non esiterebbero un attimo a fare di quella violenza il proprio slogan politico per raggiungere consenso, gloria personale e soddisfazione dei propri interessi: basti pensare alla folle presunzione del presidente brasiliano Bolsonaro che considera la foresta Amazzonica non un bene dell'umanità, ma un possedimento esclusivo del Brasile.

Basta un niente. Chiudere troppo gli occhi su quello che ci circonda per fare il gioco di questi furbi ci condurrà, pian piano, a diventare i “bambini che dormono sul fondo del Sand Creek”.

Il Sand Creek è il mondo che ognuno di noi vive, calpesta, respira e che a nostra volta contribuiamo a cambiare, i bambini che dormono siamo noi, senza più speranza, esanimi. Nella canzone si parla di vera e propria morte fisica, in questa mia analisi invece è più logico parlare di morte morale, anche se i nostri comportamenti comporteranno la morte fisica di moltissime persone nella nostra grandissima indifferenza. 

Noi bambini, addormentati dalla paura del buio, del vuoto, dalla paura di uscire di casa e incontrare altri simili, arrabbiati e delusi da aspettative e promesse non mantenute, saremo le vittime perfette per chi vuole prendersi il nostro cuore sotto una coperta scura di silenzio e consenso che ci pentiremo di aver dato. E tutto questo l'avremmo fatto per un dollaro d'argento, qualcosa che sul momento può farci comodo, ma che alla lunga si rileva inutile e poco fertile.
Ma quando ce ne accorgeremo potrebbe essere troppo tardi perché il villaggio rischierebbe di essere messo a ferro e fuoco. L'effetto collaterale che si può produrre è il non comprendere i segnali, non dare il giusto peso alle frasi come se le parole non contassero nulla, allontanare i campanelli d'allarme, o peggio, credere di essere sicuri ed essere colti alla sprovvista proprio quando “i nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisonte” sono impegnati a procurarci da mangiare dando priorità alla sussistenza e lasciando scoperto il villaggio.

Illuderci non risolverà i problemi, li allontanerà solo parzialmente e per proteggerci ci porterà ad auto-ingannarci (“Chiesi a mio nonno è solo un sogno e mio nonno disse sì”), pensando che tutta l'instabilità e il pericolo che stiamo vivendo non sia altro che un sogno, un brutto sogno da cui ci risveglieremo al mattino.




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